I passi lunghi sotto il sole, con la mano gentile d’una sorella che guida. Gli occhi neri, nerissimi, persi nel vuoto ma non persi per sempre, che seguono dita adulte, callose e al tempo stesso delicate. La gioia che s’abbraccia, mitra in spalla su prati verdi dove pure s’incrociano le armi. La giovinezza femminea, sempre gioiosa, che dà un senso alla vita sia che proceda armata, sia che sollevi con orgoglio l’arma migliore: un neonato. Figlio di quel popolo che torna per recuperare quel che gli si strappava e calpestava: la dignità di vivere com’è vissuto per millenni prima che Maometto comparisse e dopo il passaggio del profeta, perché Allah è benevolo verso ogni creatura. Mani aperte che sembrano armi e serrate sulle armi, mentre gli sguardi non nascondono le difficoltà d’una guerra che prosegue. I realistici scatti sono frutto dello splendido lavoro di Umit Bektas per l’agenzia Reuters, pubblicate dal magazine International business Times. Non le rubiamo, le prendiamo in prestito. Sperando di non incorrere in censure per copyright ne facciamo un uso di free press, perché quei sorrisi immortalati sono patrimonio dei popoli liberi.
Ci sono battaglie, sempre ci sono state, che valgono una guerra. Quella contro l’Isis, combattuta unicamente dai militanti kurdi – se per combattere s’intende rischiare la pelle ogni istante, sentire fischiare pallottole e rimbombare granate – ha già avuto un momento storico nella riconquista di Kobanê, città simbolo della resistenza alle bandiere nere del Califfato. Fuori di retorica, quello che guerriglieri e guerrigliere delle Unità di protezione popolare e delle Unità di difesa delle donne stanno perseguendo è l’unica barriera militare e umana al fondamentalismo jihadista che da un anno ha creato un suo Stato. Certo la pressione viene anche allentata dai raid aerei dei caccia statunitensi e degli alleati arabi compiuti sul territorio, ma chi mette a terra i famosi anfibi rischiando di non sollevarli più sono i combattenti del Rojava. Difendono la loro terra, la gente che ci viveva ed è dovuta fuggire, l’ideale di libertà che c’è dentro i cantoni dell’autonomia democratica di etnìe e religioni che vogliono convivere e avevano iniziato a farlo prima che Al-Baghdadi si proclamasse signore delle altrui esistenze.
Tal Abyad è un punto sul confine turco-siriano lungo il fiume Balikh. Aveva cinquantamila abitanti, ma solo la caduta sotto il controllo dell’Isis l’ha fatto conoscere al mondo, svelando alcuni risvolti. A cominciare dall’essere diventato uno degli ingressi dei combattenti stranieri che indossano la casacca nera. Ovviamente il suo controllo da parte dell’Isis aveva spezzato la contiguità dei cantoni del Rojava e poiché da lì la strada verso Raqqa non ha ostacoli, il passaggio di denaro e d’ogni altro contrabbando dalla roccaforte dello Stato Islamico verso il confine turco e viceversa, nei mesi scorsi era diventato un gioco. Sporco. Osservatori internazionali hanno anche testimoniato come gli amministratori turchi fornissero l’elettricità ai jihadisti, quella che a volte negano ai rifugiati. Vedremo se saranno altrettanto generosi con gli sfollati che sotto la protezione dei kalashnikov kurdi riprendono a respirare l’aria di casa. Con timore, ma non sentendosi più profughi sotto le tende. Un rientro che l’obiettivo fotografico ha colto e testimoniato.
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