Il ‘sultano’ Erdogan ha incassato ieri un ‘si’ poco più che formale da parte dell’Alleanza Atlantica alla sua spregiudicata strategia basata ufficialmente nell’adesione alla coalizione internazionale contro lo Stato Islamico ma diretta fondamentalmente a contrastare i successi politici e militari dei curdi in patria e in Siria e a rovesciare il governo di Damasco.
Il Consiglio atlantico, riunitosi ieri in sessione straordinaria su richiesta di Ankara, ha formalmente «condannato» gli attacchi dell’Isis e del Pkk, esprimendo la propria solidarietà ad Ankara nella sua opera “di autodifesa” e quindi appoggiando i raid aerei in Siria e in Iraq.
Il gioco di Erdogan è d’altronde esplicito: finora il suo esercito ha condotto quasi 200 missioni aeree contro 400 obiettivi curdi del PKK in Irak e in Siria contro alcune postazioni delle Ypg. Pochissimi e dai dubbi risultati invece gli attacchi alle postazioni dell’Isis in Siria. Con il risultato che il governo dell’Irak – alleato sempre meno entusiasta di Washington – ha protestato con veemenza accusando la Turchia di aver violato il proprio territorio mentre dagli Stati Uniti si ammette che l’appoggio garantito ad Ankara ha causato un indebolimento della collaborazione con le milizie curde nel nord della Siria, finora sostenute seppur debolmente dalla ‘Coalizione Internazionale’ a guida americana.
E quindi in realtà la riunione di ieri ha espresso una certa diversificazione tra l’incondizionato sostegno statunitense e un appoggio assai più tiepido da parte dei partner europei di Washington “preoccupati” per la rottura del negoziato con la guerriglia curda che da giorni ormai è finita nel mirino dei bombardamenti da terra e dal cielo delle forze armate di Ankara, assai meno attive invece contro i jihadisti dopo un primo raid realizzato venerdì scorso oltrefrontiera.
Pur affermando il pieno supporto alla Turchia e “al suo diritto a difendersi”, molte delegazioni avrebbero sottolineato l’importanza della continuazione degli sforzi per il proseguimento delle trattative con i curdi, un invito che allo stato è abbastanza paradossale. Sia Washington che i membri europei della Nato sono assai preoccupati per l’espansione di un jihadismo combattente che hanno sostenuto o quantomeno irresponsabilmente tollerato dall’Asia all’Africa passando per il Medio Oriente, allo scopo di indebolire le aree oggetto dei propri interessi neocoloniali. Tutti sanno che per rafforzare la campagna militare volta a contenere e indebolire lo Stato Islamico in Siria e Iraq il ruolo della Turchia è fondamentale, ma sanno anche che Ankara non darà alcun contributo alla lotta dell’Isis senza che in cambio gli venga riconosciuto un ruolo di primo piano nel ridisegno dei confini e degli assetti del Medio Oriente, e della Siria in particolare, sulla quale l’invadente vicino accampa esplicite rivendicazioni territoriali.
Il terrorismo – si legge nel documento finale stilato dai 28 membri del patto militare – pone «una minaccia diretta alla sicurezza dei membri Nato e alla stabilità internazionale» e «non può essere tollerato o giustificato in qualsiasi forma e manifestazione». Ma per quanto riguarda la «safe zone», la zona cuscinetto da creare all’interno del territorio settentrionale della Siria e affiancata da una zona di non volo, lo stesso segretario della Nato Stoltenberg ha chiarito che si tratta di «una discussione su base bilaterale» tra Ankara a Washington che evidentemente non gode del convinto sostegno degli altri partner europei. Che anzi, probabilmente, non vedono di buon occhio il rinnovato ruolo turco in Medio Oriente e il redivivo protagonismo statunitense. Tant’è che a parte la solidarietà politica nei confronti di Ankara la Nato non interverrà in alcun modo per sostenere le forze armate turche anche perché – ha chiarito Stoltenberg – la Turchia non ha chiesto un incremento della presenza militare dell’Alleanza nel suo territorio. “Siamo molto soddisfatti per l’aumentato impegno della Turchia nella lotta contro l’Isis la Turchia ospita già diverse strutture di addestramento per le forze moderate che combattono in Siria ed è l’alleato Nato più coinvolto dall’espatrio dei rifugiati e ha saputo accogliere in maniera encomiabile centinaia di migliaia di profughi”, ha concluso il leader della Nato.
Mentre il suo ambasciatore presso l’Alleanza Atlantica incassava il tiepido e per certi versi sospettoso sostegno degli altri 27 membri della Nato, prima di partire per la Cina il presidente Erdogan ribadiva che gli attacchi contro i “terroristi” – definizione che comprende sia lo Stato Islamico sia le organizzazioni combattenti curde – continueranno, affermando l’impossibilità di “continuare il processo di pace con chi minaccia l’unità e la fratellanza nazionale”, di fatto rifiutando il consiglio appena arrivato dagli alleati occidentali. Al contempo il presidente turco ha annunciato una ulteriore stretta repressiva nel paese con la revoca dell’immunità ai parlamentari dell’Hdp – il partito che riunisce sinistre radicali curde e turche – affinché possano essere puniti per il loro sostegno ai “gruppi terroristici”. Agli islamisti dell’Akp brucia evidentemente la perdita della maggioranza assoluta alle ultime elezioni proprio per colpa dei curdi che hanno fatto irruzione nel parlamento di Ankara con il 13%, catalizzando i consensi di alcuni settori dell’opinione pubblica progressista turca stufa dell’autoritarismo liberista di Erdogan.
«Chi mette a dura prova la tolleranza della gente e dello Stato riceverà la risposta che merita al più presto» ha tuonato il ‘sultano’ mentre i suoi caccia bombardavano varie postazioni del Pkk nella provincia di Sirnak, sulle montagne al confine con l’Iraq. Non la messa fuori legge dell’Hdp, come chiedono i nazionalisti di destra dell’Mhp, ma quasi.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa