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Vertice europeo per un “muro comune” contro le migrazioni

L’Unione Europea è talmente sorda ai problemi non strettamente contabili che ha bisogno di vedere camion pieni di migranti morti, sulle strade delle civilissime Austria e Gran Bretagna, per fissare una riunione con al centro il tema della migrazione epocale messa in moto da guerre, crisi economica, carestie.

E’ stata fissata per il 14 settembre la riunione ministeriale d’emergenza dell’Ue sull’immigrazione “per rafforzare la risposta europea”, auspicata dai ministri dell’interno di Francia e Gran Bretagna. Lo ha annunciato la presidenza lussemburghese.

Ma si tratterà fondamentalmente di una risposta “di polizia” (non a caso i promotori sono in ministri dell’interno, non i presidenti del consiglio). Le “misure immediate” che verranno discusse dal Consiglio Interni e Giustizia (JAI) sono quelle già proposte altre volte: allestimento di ‘hot spot’ in Grecia e in Italia per registrare i migranti e identificare i richiedenti asilo, l’individuazione di una lista dei “paesi d’origine sicuri” per completare il regime di asilo comune, selezionando i rifugiati (da far restare e distribuire tra i diversi paesi Ue) dagli immigrati “permotivi ecoomici”, che invece si vorrebbe rispedire rapidamente nei paesi di provenienza. In pratica, la costruzione di un “muro comune” meno visibile delle barriere nazionali che alcuni governi – soprattutto di destra – vanno costruendo (Ungheria, la stessa Gran Bretagna, ecc).

Il compromesso securitario è abbastanza esplicito: per un verso mostrare un volto meno “incivile” dell’Unione Europea, stigmatizzando (fino ad un certo punto) i movimenti xenofobi di estrema destra, dall’altro rassicurare la parte più impaurita delle opinioni pubbliche nazionali riducendo al minimo il numero di rifugiati da ospitare.

Una vera strategia comune è però altamente improbabile. Senza neanche attribuire alcuna serietà alle chiacchiere di Renzi sul “diritto d’asilo comune” (che rivela una crassa ignoranza del diritto internazionale per come rappresentato dall’Onu), è evidente che l’approccio “intergovernativo” al problema delle migrazioni rende molto facile evidenziare le differenze nazionali.

Se ne è avuta una prova già ieri, quando il ministro degli interni britannico Theresa May, nel mentre chiedeva un vertice europeo per una “risposta comune”, con un editoriale sul Sunday Times ha messo in discussione il trattato di Shengen sulla libertà di spostamento delle persone all’interno dell’Unione Europea. In altri termini, per il governo conservatore inglese sono da limitare non solo le migrazioni extracomunitarie, ma persino quelle dei cittadini comunitari, azzerando l’unico “vantaggio universalmente visibile” della stessa Ue.

E questa volta sono anche gli italiani al centro delle preoccupazioni xenofobe inglesi. Nel corso dell’ultimo anno, infatti, sono stati addirittura 57.000 i connazionali trasferitisi in Gran Bretagna per cercare lavoro; il doppio dell’anno precedente. Ma l’economia inglese – Borsa di Londra a parte – zoppica come tutte le altre; quindi non può garantire l’assorbimento né di professionalità di alto livello, né quelle “tipiche” dell’emigrazione italica (ristorazione, alberghiero, ecc).

Come si fa a bloccare i ”cittadini comunitari” senza chiamarsi fuori dagli obblighi europei? La burocrazia offre migliaia di marchingegni utili a raggiungere l’obiettivo facendo finta di non mettere in discussione i diritti. Il primo, è già molto strombazzato dalla comunicazione governativa inglese, riguarda il diritto al welfare. Basta negare l’accesso ad una serie di prestazioni (in primo luogo all’assegno di disoccupazione), ed ecco che migliaia di europei senza lavoro sul suolo britannico saranno costretti a prendere la strada del ritorno a casa.

Ma il ministro inglese ha ipotizzato anche misure più radicali, come la libertà di accesso soltanto per quanti dispongono già di un contratto di lavoro. L’immigrazione netta in questa misura è semplicemente insostenibile”, scrive il ministro May sul Sunday Times. “Perché causa pressione sulle infrastrutture, come l’edilizia e il sistema dei trasporti, e sui servizi pubblici, come le scuole e gli ospedali”. Ovvero proprio quei servizi che la stessa Unione Europea chiede di tagliare ai paesi indebitati (i Piigs, ovvero i paesi del sud Europea).

Ma il problema dei problemi è proprio questo: in un sistema caratterizzato dall’assoluta libertà di movimento di merci e capitali, così come dall’assoluta differenziazione dei sistemi politici (assistenza, welfare, diritti, ecc), è assolutamente inevitabile che le popolazioni siano sottoposte alle stesse sollecitazioni. E quindi che tendano a seguire “la scia del benessere”, lasciando territori entrati in crisi (per la ragioni più diverse, ma tutte riconducibili al saccheggio delle risorse e/o alla compressione delle condizioni di vita (disoccupazione, livelli salariali, ecc) per indirizzarsi verso quelli che mantengono o migliorano i propri standard vitali.

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