Per ordine del Ministro della difesa, Anatolij Šalaru, è iniziata in Moldavia la rimozione degli epici T-34, i carri armati sovietici che, un po’ dappertutto nei paesi est europei in cui si erano combattute le battaglie più significative, rimangono come monumenti a testimonianza del sacrificio dei soldati dell’Armata Rossa nella Grande guerra patriottica. Šalaru, che ieri ha assistito personalmente alla “cerimonia” dell’avvio delle rimozioni, ha dichiarato che “oggi la repubblica dà importanza ad altri valori e il posto per tali monumenti è nei musei”.
Aprire la lista degli sgomberi è toccato a un T-34 collocato in una base di fanteria motorizzata a Kišinëv. “Non possiamo educare i militari con tali simboli”, ha detto Šalaru, in quota al Partito liberale: il più fermo, tra quelli della coalizione governativa, nel sostenere l’unione alla Nato. “Questi carri stanno su basamenti un po’ in tutta Europa come a ricordare: se non vi comporterete bene, ecco i nostri metodi di ristabilimento dell’ordine”, ha aggiunto.
Per la verità, il “la” all’operazione lo aveva dato un anno fa il sindaco di Kišinëv, Dorin Kirtoake, fulminato sulla via del ritorno da un viaggio in Estonia, paese che, al pari di Lituania e Lettonia (a Riga, nel marzo scorso, si era svolta una parata di ex legionari delle Waffen-SS), in questi affari, da un paio di decenni ha già maturato una discreta esperienza: nel 2007, con una decisione che aveva portato sull’orlo della rottura delle relazioni diplomatiche con Mosca, era stato eliminato dal centro di Tallin uno dei più celebri monumenti alla liberazione, il “Soldato di bronzo”. Secondo il giovane Dorin, la rimozione di tutti i monumenti dedicati ai soldati sovietici caduti, contribuirà ad accelerare l’integrazione nell’Unione Europea: “se la Moldavia seguirà l’esempio dell’Estonia, allora tra 10, 15, 20 o 25 anni saremo cittadini dell’Europa a pieno diritto” aveva proclamato allora Dorin. Eccolo accontentato.
Secondo le stime riprese un anno fa dalla Tass, circa l’80% dei monumenti che in Moldavia ricordano i caduti dell’ultima guerra, avrebbero bisogno di restauri, di cui, d’altronde, si fanno carico varie amministrazioni municipali e regionali russe, da cui proveniva la maggior parte dei caduti sovietici sul fronte moldavo. “Purtroppo”, aveva detto il presidente della commissione per le minoranze nazionali al parlamento moldavo, Vadim Mišin, “tra i politici moldavi c’è chi chiama i liberatori “occupanti” e cerca di scatenare conflitti nel paese servendosi dei monumenti ai soldati sovietici”.
Dunque, destinazione del primo T-34 rimosso a Kišinëv – aveva partecipato alla battaglia di Jassk-Kišinëv, che portò alla liberazione della Moldavia nell’agosto del ’44; tutti i carri posti su basamenti nei paesi liberati dall’Esercito Rosso parteciparono realmente alle battaglie – è il “Museo della occupazione sovietica”, promosso, per l’appunto, dal Partito liberale, di cui il Ministro della difesa è vice presidente. Appena un mese fa, ricorda la Tass, il Partito socialista, all’opposizione (con i suoi 25 deputati costituisce la più forte frazione parlamentare) aveva chiesto le dimissioni di Šalaru, per la sua proposta di dar vita a un esercito unico con la Romania. Šalaru aveva lanciato la proposta nel corso di un incontro a Bucarest con il suo omologo Mirčea Duša; “oggi abbiamo due eserciti e due ministri” aveva detto Šalaru, “spero che in futuro avremo due ministri e un solo esercito, per semplificare le cose”. Da parte sua, Duša aveva assicurato il collega (di stipendio? Curiosa la storia di un solo esercito, ma due ministri) che la Romania, nell’ambito dell’accordo di collaborazione militare rinnovato nel 2012, aiuterà le forze armate moldave ad adeguarsi agli standard Nato, di cui Bucarest è membro dal 2004. A Kišinëv, a chi fa osservare che la Costituzione moldava prevede la neutralità e il divieto di far parte di qualunque blocco, rispondono che ciò non costituisce un ostacolo alla collaborazione nel quadro del partenariato nordatlantico, in base a cui gli “esperti” Nato agiscono tranquillamente da “consulenti” per i militari moldavi. A sua volta, la Moldavia sostiene con propri contingenti le “operazioni di pace” dell’Alleanza e partecipa anche alle manovre militari congiunte, che hanno assunto un carattere quasi permanente ai confini russi. A ogni buon conto, a Kišinëv è già operativo un Centro informazioni Nato ed è stata decisa l’apertura di una sua rappresentanza ufficiale.
E ci sono anche pochi dubbi che tale Centro, intanto, non agisca da sede di “consulenza” per le manifestazioni che stanno agitando – sinora abbastanza pacificamente – la capitale moldava. Nonostante gli orientamenti governativi filo UE e filo Nato, i dimostranti che agitano bandiere europee e romene e che fanno riferimento a “Demnitate si adevar”-DA (“Dignità e verità”) non rimangono fermi alla sola lotta alla corruzione – era il tema centrale di Euromajdan, vero? – ma puntano soprattutto alle dimissioni del Presidente Nicolae Timofti e del governo, giudicati troppo “tiepidi” verso l’integrazione europea. Dopo le manifestazioni di domenica 6 e 13 settembre, ieri poche centinaia di dimostranti si sono raccolti non solo sotto i palazzi presidenziale e governativo, ma anche della banca nazionale: lo spunto che ha consentito di convogliare in piazza la maggior parte di coloro che protestano contro i gruppi oligarchici è dato dalla scomparsa di un miliardo di $ – 1/8 del bilancio statale: il 15% del PIL – da tre banche commerciali. Ciò non toglie che la collera di chi segue le indicazioni di DA venga strumentalizzata per obiettivi politici ben più ampi della lotta alla corruzione. “Blocco Rosso”, l’organizzazione comunista i cui leader sono stati arrestati dal governo dopo le manifestazioni del 6 settembre, denuncia come DA punti in realtà all’ingresso nella Nato, all’integrazione alla UE e all’unione alla Romania. Al contrario, appunto, di “Blocul rosu”, che sta da mesi organizzando proteste di massa contro la politica filo UE, antipopolare e militarista del governo e, per questo, attaccato anche dalla leadership di DA.
Pochi giorni fa, il PC moldavo – da cui da tempo si sono staccati i comunisti di “Blocco rosso”, accusando il partito guidato da Vladimir Voronin, forse non a torto, di sostenere in realtà, pur dall’esterno, il governo e di lavorare nell’interesse degli oligarchi – aveva diffuso un comunicato in cui si denunciava come “il paese e il popolo si trovino sull’orlo dell’abisso, a cui li hanno condotti i destri che hanno preso il potere nel 2009”. Da allora “è cominciato il declino sociale ed economico del paese, che ha frenato la modernizzazione europea, mentre sono fioriti corruzione, furti, criminalità. Già nel 2012 il Partito Comunista constatava come gli organi di potere siano spartiti tra le forze di governo che però, al tempo stesso, si scontrano in una lotta a morte per la divisione del bottino”.
Dunque, ieri, ancora una volta il presidente Nicolae Timofti si è rifiutato di incontrare i dimostranti. E uno dei leader di DA, Valentin Dolganjuk, ha ammonito che “ci costringono a ricorrere all’incremento della pressione sul potere, dato che con le buone non la intendono e seguitano a ignorare le nostre richieste. Se non ci ascolteranno, le nostre proteste saranno ancora più di massa”. Per la verità, gli organizzatori stessi ammettono che già la seconda giornata, il 13 settembre, ha visto minore partecipazione e domenica prossima non ci sarà alcun concentramento, ma solo qualche picchetto: poche persone, con stipendi di fame, possono permettersi un viaggio fino alla capitale. Ma, ha avvertito il portavoce di DA Vasilij Nestase, “non appena sarà presa la decisione di cacciare una volta per tutte la mafia dal governo, a Kišinëv ci sarà un’azione di protesta di grosse dimensioni”.
Lo scenario, dunque, è quello solito, ben collaudato. Le consultazioni di DA presso le varie sedi “antioligarchiche” di ambasciata USA, Fondazione Soros, rappresentanza UE e Centro informazioni Nato continuano…
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