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Burkina Faso: nel nome di Thomas Sankara le proteste contro i golpisti

L’autunno riserva brutte sorprese in Africa. Era il 15 ottobre del 1987 quando il capitano Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso rivoluzionario, fu assassinato insieme a dodici compagni; ieri, il giudice militare di Ouagadougou aveva convocato le parti civili per comunicare i risultati delle indagini balistiche e autoptiche su quei (presunti) cadaveri, fatti riesumare. A scanso di sorprese, mercoledì sera, i principali sospettati di quel delitto hanno fatto la loro sortita nella capitale. I militari del Reggimento di sicurezza presidenziale, con il loro comandante, generale Gilbert Diendéré, hanno arrestato il presidente “di transizione” Michel Kafando, il primo ministro Isaac Zida e sciolto il governo del Burkina Faso, un paese che, appena tre decenni fa, aveva rappresentato un esempio quasi unico, per l’Africa, di insurrezione militare compiuta per il governo del popolo. Questa volta, i militari sono intervenuti, ma al servizio di chi, quella breve esperienza (dal 1983 al 1987) aveva contribuito a soffocare. Il Reggimento di sicurezza presidenziale ha costituito infatti, per oltre 30 anni, la guardia pretoriana di colui che è tutt’oggi il presunto mandante dell’assassinio di Sankara: il suo ex braccio destro Blaise Compaoré. L’omicidio, gli ha assicurato il potere assoluto fino alla cacciata a furor di popolo, un anno fa, e l’entrata in carica di quel governo “di transizione” (ora deposto) che avrebbe dovuto guidare il paese fino alle elezioni, fissate per il mese prossimo.
Ed era stato lo stesso governo di transizione a rilanciare l’inchiesta su quell’assassinio di 28 anni fa. Non saranno stati certamente i possibili esiti dell’autopsia sul cadavere di Sankara, scriveva ieri “Jeune Afrique”, a far scattare l’azione dei militari golpisti, ma la coincidenza è significativa. Come il fatto che Compaoré e i suoi protettori europei e africani non abbiano mai cessato di pensare alla rivincita.
Un’altra coincidenza: tre giorni fa, la Commissione per la pacificazione nazionale e le riforme aveva proposto lo scioglimento della Guardia presidenziale, considerata tuttora fedele a Compaoré. Questi, già passato per le forche caudine di dimostrazioni di massa nel 2011, che lo avevano costretto a un rimescolamento governativo, era stato costretto alla fuga un anno fa, dopo il suo fallito tentativo di apportare modifiche alla Costituzione, che gli permettessero di candidarsi ancora una volta alla presidenza. Il potere era stato assunto dal tenete-colonnello Isaac Zida e, in attesa delle elezioni presidenziali fissate al prossimo ottobre, alla carica di “Presidente del periodo di transizione” era stato eletto Michel Kafando, allora rappresentante permanente all’ONU. Un mese fa Compaoré, rifugiato in Costa d’Avorio, era stato accusato in patria di alto tradimento.
Se è forse presto per far luce su quali siano gli obiettivi reali dei militari e quali interessi locali e stranieri stiano dietro al loro colpo di mano, pochissimi dubbi rimangono su mandanti e finanziatori del colpo di stato del 1987: Francia, Stati Uniti e Ciad in testa. E non è certo un mistero che soprattutto la Francia detenga ancora forti interessi in Burkina.
Comunque, stando alle  dichiarazioni rilasciate telefonicamente a “Jeune Afrique”, il generale Gilbert Diendéré, autonominatosi capo del Consiglio di transizione, ha detto: “Siamo entrati in azione per impedire la destabilizzazione del Burkina” e ha aggiunto che nel paese era prevalsa “una grave situazione di insicurezza pre-elettorale”. Lui e i suoi uomini sono intervenuti a causa “delle misure di esclusione adottate dalle autorità di transizione” e per “prevenire la destabilizzazione del Paese”. Le misure di esclusione avrebbero riguardato, appunto, personaggi vicini a Compaoré.
D’altronde, ieri sera il portavoce dei militari ha garantito la pronta scarcerazione dei leader arrestati. La stessa fonte ha dichiarato che un Consiglio nazionale democratico agisce per porre fine “al regime deviante della transizione. Il governo di transizione e il consiglio nazionale della transizione sono disciolti. Una larga concertazione è stata intrapresa per formare un governo che raggiunga elezioni inclusive e tranquille”.
Al momento, per la verità, la situazione molto tranquilla non lo è: i militari hanno fatto uso anche delle armi contro le centinaia di manifestanti raccoltisi attorno al palazzo presidenziale e che hanno organizzato larghe dimostrazioni un po’ in tutto il paese.
ONU e UE hanno reagito, chiedendo la scarcerazione degli arrestati. Ban Ki-Moon ha definito gli avvenimenti “una volgare violazione della costituzione del Burkina Faso”, ribadendo l’appoggio “alla leadership di transizione e al presidente Kafando”.
Il Burkina Faso, ex Alto Volta, fino al 1958 colonia francese nell’Africa occidentale, conta 10 milioni di abitanti. Considerato uno dei paesi più poveri al mondo, con il 35% del PIL derivante dall’agricoltura, in cui è occupata circa l’80% della popolazione, non detiene particolari ricchezze naturali, a parte il cotone e le numerose miniere d’oro, in cui lavorano decine di migliaia di bambini.
Eppure, trent’anni fa, le opportunità di sviluppo economico e sociale ricevettero un impulso significativo, con i piani e i progetti lanciati dai rivoluzionari comunisti, di cui era a capo Thomas Sankara. Il “Paese degli uomini integri” (questo il significato del nome Burkina Faso, voluto da Sankara) passato, dopo l’indipendenza nel 1960, attraverso colpi di stato e un’arretratezza che nel 1983 aveva in molti settori dimezzato gli indici di 20 anni prima, non avrebbe avuto bisogno, per dare slancio alle potenzialità interne, di alcuna carità, pietista e opportunamente indirizzata (nel migliore dei casi, fine a se stessa) portata dalle organizzazioni clericali, dilagate poi anche qui, come un po’ dappertutto in Africa. Nei 4 anni di governo rivoluzionario, il paese dimostrò di potersi sviluppare in piena indipendenza, ponendo fine alla miseria, alla fame, all’asservimento neocoloniale: a questo proposito, uno dei principali obiettivi di Sankara fu il rifiuto del debito coloniale. Nel 1986, alla 25° sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana, così si espresse: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.
Nel mezzo dell’esperimento, nel maggio 1985, “Afrique Asie” scriveva “La rivoluzione burkinabé entra senza dubbio in una fase nuova: quella della messa in pratica d’una strategia globale di sviluppo e liberazione delle energie creative. Alla fine dell’anno in corso si dovranno trarre gli insegnamenti e lanciare il primo piano quinquennale”, che sarebbe andato di pari passo con il Programma popolare di sviluppo, la mobilitazione popolare e il ruolo dei Comitati di difesa della rivoluzione. Questi erano i programmi immediati in un paese che, all’epoca, contava un’aspettativa di vita che non superava i 40 anni, il 92% di analfabetismo e una mortalità infantile al 167 per mille e in cui, dietro la spinta della rivoluzione del 1983, i raggruppamenti comunisti si unirono, come riportava ancora “Afrique Asie” nel 1986, “in vista della creazione di una organizzazione unica d’avanguardia a garanzia della continuità della prima rivoluzione”. Se il tentativo di Thomas Sankara non denotava i crismi di una svolta socialista vera e propria, gli attori principali, a partire dal loro leader, testimoniavano orientamenti marcatamente comunisti.
Molti oggi ricordano giustamente le scelte personali di Thomas Sankara di semplicità, onestà, rifiuto dei lussi del potere. Ma si deve prima di tutto sottolineare che egli non era né un ascetico gesuita, né un penitente flagellante: era un comunista, le cui scelte private facevano tutt’uno con la sua visione di sviluppo sociale del proprio paese. Tra le misure immediate adottate dal suo governo: abolizione delle monocolture, in mano ai monopoli esteri; eliminazione di privilegi e diritti feudali e nazionalizzazione della terra (nel giro di 4 anni, il paese aveva raggiunto l’autosufficienza alimentare e, con lo sviluppo agricolo, si era anche sferrato un colpo effettivo alla desertificazione); alfabetizzazione e istruzione pubblica, con la costruzione di centinaia di scuole; assistenza sanitaria pubblica; politica abitativa pubblica; sviluppo culturale e parità di genere. Soprattutto oggi, quando si infuoca il “dibattito” sull’accoglienza o il respingimento dei cosiddetti “profughi economici”, non dovrebbe essere dimenticata l’esperienza di un paese che aveva rifiutato la via del soggiogamento e degli “aiuti umanitari” prestati a caro prezzo da coloro che, da cinquecento anni, hanno fatto delle guerre di rapina ai danni di interi continenti la base di partenza per i propri sopraprofitti.
Lo scorso aprile, ancora “Afrique Asie” riportava il comunicato delle organizzazioni che, nel Burkina Faso, si richiamano a Thomas Sankara e che avevano deciso di coalizzarsi proprio in vista delle elezioni presidenziali di ottobre. “Per tutti i 27 anni del regime di Compaoré” era scritto, “c’è stato certamente un nemico comune, ma non si è mai riusciti a unirsi per combatterlo. Oggi, l’insurrezione popolare” (dell’ottobre scorso, che aveva cacciato Compaoré) “ha rivelato che l’immagine di Sankara ha non solo unito i giovani, ma ha soprattutto rafforzato la loro convinzione di poter fare fronte comune per un nuovo Burkina”.
Gli indirizzi di Sankara – anche in politica estera: panafricanismo, avvicinamento al campo socialista e allontanamento dalla Francia – furono presto sconfessati dai suoi assassini, che riportarono il paese  sulla via della dipendenza straniera e del risorgere di quelle oligarchie finanziarie locali, di cui Compaoré è un esempio più che evidente: “è”, perché ancora non è affatto detto che il colpo di mano dei suoi pretoriani non abbia successo.

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