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I russi avvertono la crisi ma non sono pronti alle proteste

Secondo un sondaggio condotto all’inizio di settembre dall’ufficiale VTsIOM, il 51% dei russi si dichiara pronto a sostenere i sacrifici procurati dalle sanzioni occidentali, pur di tener ferma la linea di politica estera adottata in conseguenza della crisi ucraina; contrari il 37% degli intervistati. Questo, nonostante che, a un anno dalla loro introduzione, sia triplicato (dal 15 al 47%) il numero di coloro che dichiarano di avvertirne gli effetti negativi. Anzi, a dispetto delle conseguenza delle misure occidentali – prolungate fino al 31 gennaio 2016 per la Russia e di un altro anno per la Crimea – il 69% (contrari il 17%) considera giusta la scelta dell’aiuto al Donbass e il 56% ritiene impossibile rinunciare all’aiuto alle Repubbliche popolari solo per vedersi togliere le sanzioni.
Lo stesso VTsIOM, d’altronde, ha rilevato nei giorni scorsi un abbassamento degli indicatori di gratificazione sociale. I valori di soddisfazione di vita hanno registrato un indice 56 lo scorso agosto, contro il 77 di un anno fa, il 58 del 2013 e il 50 nel 2009. Scesa anche la valutazione della propria condizione materiale: l’indice è passato da 70 a 66 tra luglio e agosto, contro il 71 del 2014 e il 73 del 2013. Tornato ai livelli del 2009 l’indice del cosiddetto “ottimismo sociale” per il futuro: 57 quest’anno e 58 allora, passando per il 74 del 2014 e il 66 del 2013. Per quanto riguarda la valutazione della situazione economica del paese, si è scesi dall’indice 72 del 2014 e dal 55 del maggio scorso, al 44 attuale; anche se si è risaliti rispetto al 41 del 2013. Commentando i risultati, il direttore del dipartimento di ricerca del VTsIOM, Stepan Lvov, ha rilevato come sulla “soddisfazione sociale influiscano oggi più che altro la situazione economica del paese e le condizioni materiali dei cittadini, decisamente scesi. Ma ciò che allarma maggiormente è il calo nell’indice di ottimismo sociale – qui si sente il “respiro freddo” della crisi: gli indici ricordano molto la situazione del 2009-2010”.
Tali indicatori non stupiscono più di tanto: appena ieri “Interfax” scriveva come, rispetto all’agosto 2013, i salari medi siano diminuiti del 9,8% e i redditi reali su base annua del 4,9%. Analizzando i primi sei mesi del 2015, i redditi reali sono scesi di un massimo del 6,3% in aprile e di un minimo del 0,7% a gennaio; nello stesso semestre, i redditi reali si sono ridotti del 3,1%. I redditi medi nominali (31mila rubli ad agosto 2015. Ma le statistiche ufficiose parlano di cifre anche dieci volte più alte per alti funzionari pubblici) sarebbero invece cresciuti del 7,2% su base annua e anche i salari nominali, secondo i dati del Comitato nazionale per le statistiche, sono aumentati del 4,4%.
Il sito web dei Comunisti della Capitale, sulla base di una ricerca pubblicata su rbc.ru, titolava lo scorso 13 settembre “I russi hanno cominciato a guadagnare quanto i cinesi”, in riferimento alla caduta dei salari di molti lavoratori specializzati. Nei primi 7 mesi di quest’anno, scrive comstol.info, “rispetto all’analogo periodo del 2014, i salari reali si sono ridotti del 8,8% e i redditi reali del 2,9%. Se nel 2014 lo stipendio di uno specialista altamente qualificato si avvicinava a quello di un suo collega polacco, oggi è del 30% inferiore e, secondo gli stessi indicatori, oggi ci siamo decisamente avvicinati alla Cina, nonostante l’anno scorso fossimo più avanti del 38%”. Secondo la ricerca, nel 2015 solo l’82% delle imprese hanno aumentato salari, ma a macchia di leopardo e di somme inferiori all’inflazione. Come a varare un “job act” russo, i padroni licenziano i dipendenti, per assumerne altri a salario minimo. Inoltre, “riducono spesso la parte fissa del salario, aumentando il cosiddetto bonus, come a voler stimolare la qualità del lavoro; ovviamente, il bonus non viene pagato per i giorni di malattia o per le più piccole infrazioni alle regole inventate dal padrone stesso: una situazione che ricorda la pratica delle multe nelle imprese della Russia prerivoluzionaria”. A questo proposito, val la pena di ricordare la colorita espressione usata nel 1895 da Lenin nel suo lavoro a proposito delle multe nelle fabbriche: “I contadini servi della gleba lavoravano per i latifondisti, e i latifondisti li punivano. Gli operai lavorano per i capitalisti, e i capitalisti li puniscono. Tutta la differenza consiste nel fatto che prima l’individuo asservito era colpito col randello e ora con il rublo”. Nella Russia di oggi, in molti casi il padrone elimina anche il bonus e passa al cottimo, riducendo in tal modo, di fatto, il salario. D’altronde, ormai da una quindicina di anni anche la Russia si è dotata di un nuovo codice del lavoro dettato dal FMI nell’interesse dell’impresa, dando il colpo di grazia ai collettivi operai e alla voce dei lavoratori nelle fabbriche.
E sulla scia dei più profondi pensatori della trojka, ecco che anche a Mosca si affaccia l’idea dell’innalzamento dell’età pensionabile. Ne scriveva ieri la “Komsomolskaja pravda”, aggiungendo che ciò potrebbe avvenire già il prossimo anno. Se il prezzo del petrolio continuerà per molto tempo a rimanere sui bassi livelli attuali – questa sarebbe la ragione per cui il governo sta pensando al provvedimento – il deficit del tesoro potrebbe raggiungere i 3 trilioni di rubli e per il 2018 saranno esauriti il Fondo di riserva e quello per il welfare. L’ipotesi è quella di un innalzamento graduale, fino a portare il limite dell’età pensionabile a 65 anni.
Secondo un’altra indagine, condotta dal Centro Levada, il 36% degli intervistati dichiara che negli ultimi 10 anni la loro vita è migliorata; per il 36% non è cambiata e per il 25% è peggiorata. Tra coloro che dichiarano di aver avvertito cambiamenti negli ultimi 4 anni, le percentuali praticamente si equivalgono per quanto riguarda l’occupazione: 33% in meglio e 32% in peggio. Dal punto di vista finanziario, il 26% dice di star peggio e il 20% meglio; per il 32% degli intervistati la situazione generale del paese è peggiorata, mentre è migliorata per il 12%. A proposito del cosiddetto “potenziale di protesta”, aggiornato all’agosto scorso, si rilevano più o meno le stesse percentuali di opinione del 2014 rispetto alle possibilità di larghe azioni di protesta contro la caduta del livello di vita: verosimili per il 17% degli intervistati (17% anche nel 2014) e improbabili per il 76% (78% nel 2014). Quanto alla eventualità di prendervi parte, il 13% risponde affermativamente (8% nel 2014) e l’80% (86% un anno fa) negativamente.
In sintesi, come replicava Nestore ad Agamennone “gli dei non danno mai tutte insieme le cose ai mortali”: al momento, in Russia, solo il problema, ma non la sua soluzione. Pare che, a livello di “coscienza in sé”, la maggioranza dei russi avverta la crisi e il peggioramento delle condizioni di vita, occorsi, certo, anche a causa delle sanzioni occidentali e della caduta indotta dei prezzi delle maggiori voci di esportazione russe, ma, soprattutto, frutto inevitabile di una politica attenta solo alle esigenze dei grossi gruppi finanziari-industriali. Ma, a livello di “coscienza per sé”, sembrano per ora far testo, purtroppo, i risultati ottenuti dal PCFR (altre formazioni comuniste minori, hanno visto eletto qua e là solo qualche candidato a livello municipale) alle elezioni amministrative dello scorso 13 settembre: deludenti in quasi tutte le amministrazioni regionali, con percentuali crollate, in alcuni casi, dal 25% del 2011 al 13% attuale, passando per cali del 9, 8, 12, 7%. Come ha scritto il 17 settembre “Sovetskaja Rossija”, fiancheggiatrice del PCFR, “se questa doveva essere la prova generale delle elezioni del 2016 alla Duma, allora la prova ha mostrato un preoccupante segno meno”.  

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