Sarà una casualità di quelle che capitano di tanto in tanto, ma proprio ieri, a poco più di una settimana dalle cruciali elezioni del 1 novembre, un tribunale di Istanbul ha emesso la sua sentenza contro centinaia di manifestanti denunciati per aver partecipato alle proteste che nel 2013 incendiarono il paese dando vita ai moti popolari più massicci e determinati che la Turchia abbia vissuto negli ultimi decenni.
Quasi due anni e mezzo dopo l’esplosione delle contestazioni alla distruzione dell’area verde di piazza Taksim a Istanbul, trasformatesi poi in una rivolta generalizzata e trasversale contro il governo islamista, liberista e autoritario guidato da Recep Tayyip Erdogan – poi diventato presidente – ieri la Corte ha condannato a pene di varia entità ben 244 persone. Un segnale assai esplicito nei confronti delle opposizioni sociali e politiche a pochi giorni dal voto.
Nel maxi-processo che vedeva imputati un totale di 255 manifestanti, tra cui 7 stranieri, un tribunale di Istanbul ha inflitto pene che variano da 2 mesi e mezzo a 1 anno 2 mesi e 16 giorni – l’accusa aveva chiesto pene da un anno fino a 11 anni e sei mesi di carcere – tutte legate a presunti reati connessi alle proteste di Gezi Park. La sentenza ha risparmiato solo 7 attivisti, mentre la posizione di altri 4 è stata stralciata.
I reati contestati ai manifestanti e agli attivisti vanno dal “danneggiamento della proprietà pubblica” alla “partecipazione a manifestazioni non autorizzate”, dalla “interruzione di pubblico servizio” alla “protezione di sospetti criminali”, dalla “aggressione a danno di dipendenti pubblici” a “dirottamento di veicoli di trasporto pubblico”.
Fino a una delle accuse più discusse, quella di “danneggiamento di un luogo di preghiera”, per cui sono stati condannati a 10 mesi di reclusione 4 medici che avevano prestato soccorso ad alcuni manifestanti, feriti dagli agenti in tenuta antisommossa, all’interno della moschea Dolmabahce del quartiere di Besiktas. All’epoca il governo Erdogan accusò gli imputati di aver portato e consumato alcool all’interno del luogo di preghiera, una versione subito smentita dagli stessi imam e muezzin responsabili della moschea, che sono però poi stati trasferiti e la cui testimonianza non è valsa a evitare la condanna dei sanitari. Altri due imputati sono stati invece condannati a due anni e due mesi di prigione per aver indossato «il camice» dei medici senza esserlo. In tutti e due i casi il tribunale ha deciso per la sospensione dell’esecuzione delle sentenze.
C’è da giurare che i tribunali avranno la mano assai più leggera nel giudicare alcune decine di membri delle forze di sicurezza imputati per le violenze commesse ai danni dei manifestanti e anche di ignari passanti, che causarono – ufficialmente, perché il bilancio reale è più alto – otto morti e ottomila feriti. Molti dei quali intossicati dai gas lacrimogeni usati in quantità industriale contro le manifestazioni, o feriti dai getti degli idranti puntati contro i dimostranti, o ancora dalle pallottole di gomma e dalle spolette dei gas lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, per non parlare delle pallottole vere che hanno fatto strage di oppositori nelle piazze del paese nella primavera del 2013.
Dopo le prime simboliche proteste inscenate a difesa del Parco Gezi, piccolo ma importante boschetto pubblico minacciato dalla cementificazione in una Istanbul sempre più sfregiata dalla speculazione selvaggia, la contestazione contro la gentrificazione del centro della metropoli sul Bosforo venne brutalmente repressa dall’esecutivo. Le immagini dei pestaggi contro gli attivisti che si erano accampati nel parco, sgomberati il 31 maggio da un imponente e violento dispiegamento di polizia, fecero in un baleno il giro del mondo.
Lo spropositato intervento delle forze di sicurezza contro poche centinaia di attivisti ecologisti e di urbanisti scatenò immediatamente la rabbia e la reazione di vasti settori della popolazione che scesero in piazza anche contro l’islamizzazione forzata alla quale il partito del premier sta sottoponendo ormai da anni il paese, contro la crisi economica e contro il sostegno ai jihadisti nella vicina Siria. Per diverse settimane, milioni di dimostranti scesero in strada in tutto il Paese finché la protesta non venne soffocata dalla brutale repressione che portò ad almeno un migliaio di arresti.
E’ di questi giorni, a proposito del clima che si respira in Turchia, la notizia che Fethullah Gulen, l’influente imam turco ex alleato e oggi nemico numero uno del presidente Recep Tayyip Erdogan con il quale ha ingaggiato da tempo un feroce scontro di potere, verrà processato in contumacia con accuse di terrorismo per un presunta congiura ordita dalla sua confraternita Hizmet allo scopo di rovesciare Erdogan. Secondo le accuse, tutte di matrice politica, il predicatore/imprenditore che vive da tempo negli Stati Uniti e che è a capo di un enorme impero finanziario e commerciale, ha utilizzato la sua influenza all’interno dei media, degli apparati pubblici, delle forze dell’ordine e della magistratura turchi per far accusare l’allora premier e numerosi suoi ministri di corruzione. Nel 2013 ben quattro ministri dell’Akp e stretti collaboratori di Erdogan, implicati in una inchiesta per corruzione, furono costretti a dimettersi. Ma poi l’esecutivo intervenne per bloccare l’indagine, facendo trasferire o destituire i magistrati incaricati, oltre a migliaia di poliziotti, procuratori e avvocati ritenuti ostili al potere e manovrati da Gulen che ora la magistratura accusa nientemeno che di aver “organizzato un gruppo terroristico”.
La prima udienza del processo in contumacia è prevista per il 6 gennaio. Il tribunale di Istanbul ha emesso anche un nuovo mandato d’arresto nei confronti dell’imam, dopo aver approvato un capo d’imputazione di ben 1.453 pagine contro di lui e altri 69 suoi collaboratori, veri e presunti.
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