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Ucraina. Per Poroshenko in casa va male; fuori anche peggio

Non tira per nulla buona aria per Petro Porošenko che, battuto alle elezioni amministrative, pare sotto attacco anche dall’esterno dell’Ucraina. Media lettoni lo accusano di dire bugie e politici di Varsavia chiedono agli ucraini di riconoscere le proprie colpe nei massacri di polacchi durante l’ultima guerra. Da che pulpito arrivano le prediche, verrebbe da dire, ma tant’è.
Dunque, l’ottimista Porošenko scrive su tuitter della fine del regime dei visti tra Ucraina e paesi UE e ringrazia il presidente lettone Raimonds Vējonis per l’appoggio dato a Kiev sulla faccenda. Da Riga – che, è bene ricordarlo, tiene alcune centinaia di migliaia di residenti russi nella qualifica di “non cittadini”, o “alieni” e che inaugura monumenti ai propri volontari ex-SS – arriva immediata la replica del portavoce presidenziale Gusts Kikusts: “Nel corso dell’incontro tra i due capi di stato a Kiev non si è parlato di abolizione del regime dei visti. Il discorso ha riguardato solo l’accordo di libero scambio tra Ucraina e paesi europei. Troppo azzardato parlare di fine dei visti”. Precedentemente, l’ex premier polacco e ora a capo del Consiglio d’Europa, Donald Tusk, aveva dichiarato che la partecipazione ucraina al programma “Partenariato orientale” non garantisce l’ingresso del paese nell’Unione Europea e si può parlare solo di “avvicinamento informale”.
Nemmeno a farlo apposta, proprio dalla Polonia arriva quella che non è propriamente una semplice strigliata d’orecchie, ma una ben più seria accusa di genocidio rivolta contro coloro che Porošenko e il regime golpista ucraino stanno eroicizzando: le bande fasciste galiziane al servizio delle SS che, negli anni ’42-’44, fecero strage, oltre che di soldati dell’Armata Rossa e di civili ucraini, anche di oltre sessantamila polacchi residenti nella regione della Volinia. Vero è che l’accusa viene da parlamentari ultranazionalisti del PiS (il partito reazionario vincitore delle elezioni di domenica scorsa), ma l’evidenza storica è nota da tempo. In effetti, il PiS mescola sacrosante accuse di genocidio all’indirizzo delle SS ucraine (la divisione nazista “Galizia”, composta da volontari ucraini) e rivendicazioni sciovinistiche dell’estrema destra polacca. Da un lato, afferma che se gli ucraini “vogliono essere un popolo europeo e integrarsi nello spazio culturale europeo, allora non devono più glorificare e onorare l’OUN-UPA. Se ora gli ucraini innalzano monumenti ai “banderisti”, significa che sono anche pronti in futuro a usare gli stessi metodi dei nazionalisti ucraini, in particolare gli assassinii di massa”. Dall’altro, torna a rivendicare alla Polonia tutti i territori dei cosiddetti “Kresy Wschodnie”, le Frontiere orientali – oggi parte di Ucraina, Bielorussia e Lituania – mettendo particolarmente l’accento sulla città di Lvov: “Senza Lvov” dicono al PiS, “città sempre fedele alla Polonia, non c’è un popolo polacco” e chiamano a “difendere gli interessi del popolo polacco che vive in quelle terre”. Un’altra disputa tra ladroni, dunque; una delle tante, quando al potere sono formazioni che fanno della predicazione della forza contro “il nemico esterno” il perno per tenere sotto un tallone terroristico il proprio stesso popolo.
E’ così che, a Kiev, non hanno la minima intenzione di rimangiarsi le feste ucraine ufficializzate da Porošenko: il 1 gennaio, data di nascita del filonazista Stepan Bandera e il 14 ottobre, data di fondazione dell’UPA, braccio armato dell’OUN banderista. Passi avanti verso l’”avvicinamento informale” a Bruxelles.

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