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Baltico. Muri contro la “minaccia russa” e ritorsioni nazionaliste

Mancante all'appello, tra i Paesi baltici, a voler erigere un muro al confine con la Russia, ora anche la Lituania ha deciso di fare la propria parte. Dopo i 90 km di recinzione della Lettonia, i 100 e passa km dell'Estonia, Vilnius ha deciso di non essere da meno. E siccome l'unico confine diretto col territorio russo è quello che separa la Lituania dall'exclave russa di Kaliningrad, è lì che verrà innalzato il muro, per realizzare il quale, nel bilancio 2017, sono stati stanziati 3,6 milioni di euro. Il pretesto è quello della lotta al contrabbando: in molti si sono chiesti di quali merci. Ma non è certo l'aspetto determinante della decisione. Dopo la pensata, già tre anni fa, dell'ex primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk, per la costruzione addirittura di un “vallo europeo” lungo gli oltre mille km di confine tra Ucraina e Russia – da finanziarie con soldi UE, dal momento che la recinzione, con trincee, rilevatori elettronici, torrette e nidi di mitragliatrici, dovrebbe “difendere l'Europa dalla minaccia russa” – i compari di ideologie non hanno voluto essere da meno. E, stando al Ministro degli esteri lituano, Eimutis Misiūnas, anche per il muro di fronte a Kaliningrad, la somma verrà sborsata dal Fondo per la sicurezza pubblica della UE.

Da parte loro, le autorità della regione di Kaliningrad, a testimonianza di quanto siano rimaste sconvolte alla notizia, hanno deciso di aiutare Vilnius – se il muro dovrà effettivamente servire alla lotta al contrabbando – con la fornitura di materiali da costruzione. A parere del governatore della regione di Kaliningrad Anton Alikhanov, infatti, la cifra stanziata non sarà sufficiente a realizzare una barriera di 135 km (Misiūnas aveva parlato dapprima di 45 e poi di 90 km), fornita di moderne apparecchiature elettroniche di controllo; i 3,6 milioni di euro sarebbero appena sufficienti per attrezzare le torrette di avvistamento.

Ma è chiaro come il contrabbando – di quale merce? Forse di merce umana: Vilnius parla di “flussi migratori irregolari” – rappresenti solo un pretesto e l'ennesimo muro, questa volta al confine con Kaliningrad, si inserisca nel quadro delle azioni avviate da USA, Nato e Paesi baltici “contro la minaccia russa”. Una “minaccia” cui si appellano le ultime note dall'amministrazione statunitense, strimpellate una volta di più dall'ennesimo viaggio a Kiev del vice presidente USA Joe Biden. Il quale Biden, detto per inciso, dimostra di credere così poco alla “minaccia russa” – sventolata evidentemente ad altri fini: non foss'altro che per coprire la reale minaccia, che viene invece dal concentramento di mezzi corazzati, sistemi missilistici, truppe a est – da proseguire tranquillamente i propria affari privati avviati nell'Ucraina golpista. La sua visita odierna dunque, più che un viaggio di commiato con Petro Porošenko e il primo Ministro Vladimir Grojsman, come detto da alcune fonti, serve semmai a mettere a punto gli ultimi dettagli della nuova collocazione dell'ormai ex vice presidente che, dopo aver piazzato il figlio, Hunter, ai vertici della più grossa impresa ucraina di estrazione del gas,la “Burisma Holding”, deve pur riciclarsi personalmente, anche solo in una delle imprese che legano la Burisma stessa ad altri personaggi al vertice dell'amministrazione yankee. Per il pubblico – pagante: i paesi UE – nei convenevoli di rito di fronte alle telecamere, Porošenko e Grojsman hanno ringraziato Joe per “il sostegno e la speranza che, anche per il futuro, la questione ucraina continuerà a unire l'intero corpo politico americano e rimarrà tra le sue priorità”. A sua volta, Biden ha dichiarato che “le sanzioni contro la Russia, legate alla questione della Crimea” – chissà se mentre lo diceva, invece della lacrima scesagli sulla guancia in occasione della medaglia appesagli da Obama, non avrà dovuto ingoiarsi la risata sfuggitagli – “dovranno conservarsi finché la Russia non restituirà la Crimea all'Ucraina”, aggiungendo che Kiev “anche per il futuro dovrà cooperare (!) col FMI” e, a ogni buon conto, affinché gli affari di famiglia continuino a prosperare, che “sia indipendente dal gas russo”.

Ora dunque, ad alzare muri e recinti per proteggersi dalla “minaccia russa”, manca solo la Polonia, per evidenti – per ora – motivi geografici: chissà se, continuando le dispute territoriali con Kiev, un giorno anche Varsavia non verrà a trovarsi faccia a faccia con le frontiere russe. La polacca Gazeta Wyborcza ha pubblicato nei giorni scorsi un'intervista all'attivista per i diritti umani Anna Dąbrowska, in cui la presidente di “Homo Faber” racconta delle campagne, per ora infruttuose, condotte dall'associazione per sensibilizzare la popolazione della parte orientale della Polonia sul tema dei rapporti con la minoranza ucraina. L'atteggiamento dei polacchi nei confronti ucraini non era stato così brutto dal 1989, afferma Dąbrowska: “la popolazione è presa da attacchi sprezzanti contro ogni tentativo di dialogo, sberleffi sdegnosi e arroganti, anche da parte delle autorità”. L'atteggiamento dei polacchi verso gli ucraini non è mai stato limpido, ma ora, addirittura in TV, si parla apertamente degli “ucraini come persone di seconda classe e personale di servizio”. E anche il governo, dice Dąbrowska, fa di tutto per attizzare la contrapposizione tra polacchi e ucraini. La marcia organizzata lo scorso dicembre a Przemyśl, con gli slogan di “morte agli ucraini”, non è che un esempio tra i tanti. “Abbiamo l'esperienza positiva fatta con la gente dei villaggi in cui, negli anni '40, ci furono pogrom portati da polacchi ai danni della minoranza ebrea” dichiara l'attivista, dicendo della riuscita di un nuovo atteggiamento, di dialogo, tra polacchi ed ebrei; ma nei confronti degli ucraini, si continua a raffigurare il tridente ucraino appeso alla forca, si danneggiano auto con targa ucraina, si urla alle giovanissime scolare ucraine “prostitute banderiste” e le autorità non muovono un dito.

Da parte sua, il politologo Andrzej Zapałowski, su Nasz Dziennik, giudica la distruzione, pochissimi giorni fa, del monumento ai polacchi massacrati e bruciati nel 1944 dalle SS e dai volontari ucraini della divisione “Galizia”, a Huta Penyatskoy, nei pressi di L'vov, la naturale conseguenza del fallimento della politica orientale della Polonia. “L'Ucraina si sta sempre più trasformando in un paese federativo” sostiene Zapałowski, “in cui Kiev controlla sempre meno le periferie”. Se i nazionalisti polacchi guardano con rispetto alla potenza russa, opposto è l'atteggiamento verso l'Ucraina, considerata uno stato cuscinetto e gli ucraini sono visti come banderisti. In ogni caso, i massacri della Volinia durante la guerra non sono stati dimenticati in Polonia. E nemmeno quelli dei nazionalisti polacchi contro gli ucraini. A ognuno il suo.

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