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Atletica russa sotto accusa per doping, un passo avanti nello scontro geopolitico

La sortita della Wada – l’agenzia internazionale antidoping – dà la misura dello scontro geopolitico di questi tempi. Non c’è infatti alcun dubbio che la richiesta di escludere la Russia dalle prossime Olimpiadi, specificamente nell’atletica leggera, sia un fatto politico di prima grandezza, così come lo è la lettura restituitaci da tutti media di regime. Ma in storie come questa non ci sono innocenti, e sarà bene – nonostante si stia parlando di sport, nel suo aspetto peggiore – evitare di atteggiarsi a tifosi beoti.

I fatti, per orizzontarsi. La Wada ha presentato un rapporto di 323 pagine, in cui dà conto di decine di casi di doping in tutto il mondo e in tutte le discipline sportive. La Russia è citata per 225 casi, la Turchia per 188, la Francia per 106, addirittura l’India (95 casi) precede il Belgio (94, nonostante sia un “piccolo” paese); al sesto posto l’Italia con 83, seguita ad un passo dalla Spagna con 67. Più lontani gli Stati Uniti con appena 43 casi (soltanto?).

Quanto basta a far parlare di malattia contagiosa, visto che il doping non risparmia alcun paese e tantomeno singole discipline (nell’equitazione, per dire, spesso si dopa il cavallo, non necessariamente il cavaliere).

Perché sanzionare, e in modo così pesante, soltanto la Russia? Qui si passa, anche nel rapporto della Wada, dalle considerazioni tecnico-scientifiche a quelle politiche: “Nell’atletica russa il doping è totale e di stato. Le medaglie vinte a Londra 2012 – 17 tra ori, argenti e bronzi – hanno sabotato i Giochi”. Nell’atletica, a Londra, la Russia arrivò seconda dietro gli Stati Uniti.

Nel caso russo viene inoltre documentata l’impossibilità pratica di condurre “controlli a sorpresa” (l’unico modo reale di “beccare” qualcuno, visto che le sostanze dopanti possono essere coperte o fisiologicamente smaltite nel giro di alcuni giorni), l’intervento di “servizi segreti” o comunque polizieschi nella gestione-distruzione delle provette con i prelievi fatti agli atleti, la corruzione di alcuni medici e dirigenti sportivi che “coprivano” in vario modo gli atleti comunque riscontrati “positivi” ai test.

Non c’è motivo di dubitare che questi riscontri siano veritieri. Quel che “stupisce” nel consiglio dato dalla Wada alla Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera) è la sua unicità. Nessun altro paese viene considerato meritevole di sanzioni altrettanto pesanti (neanche la Turchia, seconda in questa disonorevole classifica, quasi alla pari con la Russia, nonostante disponga di un numero di atleti di alto livello molto inferiore).

Il “consiglio” arrriva fra l’altro a una federazione che ha perso da pochi mesi il suo presidente – il senegalese Lamine Diack, finito sotto fermo di polizia insieme ai due figli, al consigliere economico della Iaaf e al capo francese dell’antidoping – con l’accusa di corruzione. Il nuovo reggente, una leggenda del mezzofondo mondiale, l’inglese Sebastian Coe, si è messo immediatamente a disposizione dell’accusa chiedendo alla Russia di “chiarire entro domenica” la situazione. I vertici dello sport russo hanno ovviamente risposto che si tratta di un “attacco politico”, che si aggiunge a quello avvenuto in Ucraina.

E anche qui non c’è da dubitare che sia vero. Siamo insomma nella classica situazione della tragedia, in cui entrambi i soggetti del conflitto possono accampare numerose ragioni a proprio favore. Nascondendo, in questo caso, una quantità innumerevole di torti.

Il doping è il tumore che sta uccidendo lo sport, ma è una derivata logica della ricerca smodata del profitto, del prestigio nazionale, del successo personale. Stiamo dicendo cose risapute, lo sappiamo; così come lo sanno i vertici dello sport – dunque della politica – globale.

Mettiamola così. Il corpo umano ha dei limiti prestazionali, che possono essere un po’ allargati tramite l’allenamento, l’affinamento della tecnica, la cura dell’alimentazione, ecc. Progressi evidenti e clamorosi possono essere osservati su qualunque essere umano che si metta a fare uno sport qualsiasi, al seguito di un allenatore mediamente competente.

Ma nel giro di pochi anni si arriva inevitabilmente al nuovo limite – quello di un corpo allenato e addestrato tecnicamente – che diventa quasi impossibile da superare con un ulteriore aumento dei carichi di lavoro o l’evoluzione del gesto tecnico. Diciamo che i progressi, a quel punto diventano infinitesimali, nell’ordine dei millesimi di secondo nelle corse o dei millimetri nei lanci e nei salti. Un nuovo record diventa possibile solo se cambiano i parametri fisici fin lì considerati ottimali – per esempio Usain Bolt, con i suoi quasi due metri, in una specialità considerata appannaggio “naturale” di gente molto meno alta – oppure “potenziando” artificialmente il fisico. Col doping, ovvero con un numero sempre crescente di sostanze chimico-sintetiche prodotte da un ramo specifico dell’industria farmaceutica.

Non c’è paese, oggi, che possa essere considerato “puro”, perché gli atleti e i loro allenatori sono ovunque liberi di muoversi sul mercato, acquistare prodotti e assumerli in totale autonomia, al di fuori di qualsiasi “suggerimento” statale. E anche gli atleti russi hanno questa possibilità. Così come esistono ancora Stati che proteggono o “coltivano” i loro atleti per aumentare il prestigio del paese tramite i successi sportivi. Ed anche i paesi occidentali esitano molto prima di “bruciare” un proprio campione clamorosamente dopato (Pantani e Schwazer in Italia, Armstrong e Gatlin negli Usa, per non parlare di Florence Griffith-Joyner, improvvisamente capace di stabilire un record assurdo sui 100 metri piani e poi morta altrettanto improvvisamente a soli 37 anni, ancora considerata “pulita”).

Dunque la decisione di sanzionare la Russia sportiva è supportata da accuse comprovate, ma è una scelta geo-politica che segna un passo avanti nell’escalation che l’imperialismo occidentale sta conducendo da anni contro Mosca.

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