C’è un attore della crisi siriana che spesso gli analisti o i dirigenti politici si scordano di citare: Israele. La cui aviazione militare proprio nei giorni scorsi è tornata a colpire presunti convogli di armi destinate a Hezbollah prima nei pressi dell’aeroporto di Damasco e poi al confine con il Libano. A causa dei raid sarebbero morti otto miliziani sciiti e anche cinque soldati dell’esercito siriano.
Negli ultimi anni Israele ha approfittato della guerra civile in corso per bombardare più volte, sul suolo siriano, basi militari delle forze lealiste e in particolare postazioni e convogli del movimento di resistenza sciita libanese Hezbollah, ed episodicamente anche comandanti delle forze iraniane impegnate a sostenere il governo di Damasco contro i jihadisti di varia estrazione. Quegli stessi che, non è un mistero, il governo di Tel Aviv ha affermato più volte di preferire tanto ad Assad quanto agli sciiti iraniani o libanesi. Quegli stessi che in varie occasioni sono stati accolti e curati – e chissà cos’altro – in strutture sanitarie israeliane, nascosti (neanche tanto, a dire il vero) nel mucchio dei circa 1500 cittadini siriani di cui Tel Aviv ha scelto dal 2013 di prendersi amorevolmente cura, provenienti per la quasi totalità dal Golan, territorio parzialmente occupato da Israele confinante con un territorio conteso tra fondamentalisti e forze lealiste. Un legame, in particolare tra amministrazione israeliana e jihadisti di Al Nusra, venuto più volte alla luce. Come quando alcuni qaedisti ricoverati in ospedali israeliani vennero ritratti in un documentario di Vice News o quando un jihadista venne linciato da una folla di drusi israeliani a Majdal Shams mentre veniva trasportato all’ospedale di Safed a bordo di un’ambulanza di Tsahal. Era stato proprio un giovane soldato israeliano druso, Hillah Chalabi, 19 anni, di stanza nel Golan, a denunciare i contatti tra le truppe israeliane e le milizie di Al Nusra, il passaggio di rifornimenti, i miliziani qaedisti trasportati in Israele per essere curati. Il che ovviamente gli è costato il carcere.
Come ricorda Michele Giorgio su Il Manifesto di oggi, un anno fa un rapporto delle Nazioni Unite riferì che le Forze di Disimpegno degli Osservatori delle Nazioni Unite (Undof), schierate lungo le linee di armistizio del Golan, avevano registrato relazioni frequenti tra ufficiali israeliani e miliziani delle fazioni islamiste siriane. Anche di quelle che poi presero in ostaggio varie decine di militari delle Nazioni Unite. Aggiunge Michele Giorgio: “Il successivo arresto per «spionaggio e contatti con agenti stranieri» di un druso che postava sui social network video e foto dei contatti ravvicinati tra l’esercito di Tel Aviv e i “ribelli” ha ulteriormente alimentato le indiscrezioni su attività segrete di Israele per spezzare l’alleanza di Assad con gli alleati libanesi di Hezbollah e Teheran. (…) tra gli esperti non manca chi minimizza il pericolo rappresentato dall’Isis, almeno per gli interessi di Israele. «Sono poche migliaia di terroristi sui pick-up, armati solo di kalashnikov. Occupano terre che nessuno vuole», ha commentato qualche mese fa l’ex capo dell’intelligence Amos Yadlin. Mentre Netanyahu continua a concentrarsi sulla «minaccia iraniana» e su presunte postazioni avanzate che Tehran starebbe allestendo a breve distanza dalle Alture del Golan”.
Per la prima volta però, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ammesso ieri che Israele “conduce operazioni” in Siria, ovviamente sottintendendo “di intelligence e militari”. “Ogni tanto lanciamo operazioni in Siria per evitare che il Paese si trasformi in un fronte contro di noi – ha detto il leader della destra sionista nel corso di una conferenza stampa – ci occupiamo anche di tutto quello che serve per evitare consegne di armi particolarmente letali dalla Siria in Libano”. Una dichiarazione che per l’ennesima volta chiarisce la priorità di Tel Aviv: approfittare della guerra civile siriana per indebolire il fronte sciita, e in particolare Teheran ed Hezbollah, anche a costo di dare una mano, direttamente o indirettamente, ad Al Qaeda, a Daesh, ad altre sigle del jihadismo sunnita. In questi anni le forze armate israeliane non hanno mai attaccato le formazioni jihadiste sunnite operanti in Siria, anche se spesso queste sono arrivate fino ai confini del cosiddetto ‘stato ebraico’. E d’altronde mai Daesh o Al Qaeda hanno preso di mira gli apparati o gli interessi di Tel Aviv nell’area. Se non un’alleanza, quanto meno si può parlare di “non belligeranza attiva” tra Israele e l’asse sunnita, capeggiato dall’Arabia Saudita (nonché dalla Turchia) che non ha mai interrotto i propri legami con le organizzazioni fondamentaliste fin qui utilizzate per destabilizzare Siria e Iraq e più in generale per indebolire i paesi e le forze dell’asse sciita: come detto Hezbollah, l’Iran, gli sciiti iracheni, gli alawiti siriani ecc. E’ l’avversione per l’asse sciita – accresciuta dal patto tra Washington e Teheran sul nucleare iraniano – ad accomunare Israele e le potenze sunnite, protagoniste di una rapida ascesa politica e militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo (da noi definito ‘Polo Islamista’) che non sembra impensierire Tel Aviv.
Le asimmetriche e cangianti alleanze internazionali (una volta si sarebbe parlato di alleanze a ‘geometrie variabili’) che contraddistinguono l’epoca attuale della competizione globale e in particolare lo schieramento delle potenze in Medio Oriente ci riservano qualche inattesa sorpresa.
In effetti Israele sembra aver stabilito anche una sorta di patto di non belligeranza con la Russia in nome dei reciproci interessi nell’area. Diversi in alcuni casi, coincidenti in altri. Del resto Tel Aviv è sempre più lontana da Washington, e ancora di più dall’Unione Europea, il che può giustificare un qualche accordo con Mosca nonostante l’avversione per il sostegno russo nella regione ai paesi dell’asse sciita.
Qualche giorno fa il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Moshe Ya’alon, aveva informato che un jet russo era entrato per sbaglio 1,5 chilometri all’interno dello spazio aereo israeliano, ma che era tornato indietro dopo essere stato avvertito dell’errore. “I jet russi non vogliono attaccare noi e quindi non c’è alcuna ragione di abbatterli, anche se c’è stato qualche tipo di errore”, ha detto Ya’alon, aggiungendo che appena l’aereo è entrato nello spazio israeliano l’errore è stato “immediatamente corretto attraverso il canale di comunicazione” diretta che Israele e Russia hanno instaurato appena dopo l’inizio dei bombardamenti di Mosca in Siria. Lo stesso Netanyahu aveva sottolineato che “le forze militari israeliane e quelle russe si coordinano per impedire incidenti e gli avvenimenti di questi ultimi giorni dimostrano come tale cooperazione sia importante per lo Stato di Israele”.
Più esplicitamente, un alto ufficiale del cosiddetto “Stato ebraico”, riferendosi alla crisi tra Ankara e Mosca, ha affermato che Israele non entrerà in azione se caccia russi dovessero entrare nel suo spazio aereo, ad esempio sul Golan, e che tra i due Paesi c’è coordinamento. “I russi sono qui – ha spiegato – e sono un giocatore chiave che non può essere ignorato. Il nostro approccio è ‘vivi e lascia vivere’. La Russia non è il nemico, al contrario”. Anche perché, stando a quanto affermato dal generale Amos Gilad, direttore dell’ufficio degli Affati politico-militari del ministero degli Esteri israeliano, l’accordo stipulato con la Russia concederebbe a Israele mano libera per colpire le milizie di Hezbollah all’interno dello scenario siriano.
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