I segnali che giungono da oltre oceano non sembrano particolarmente incoraggianti per il primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk. Prima la visita del vice presidente USA Joe Biden a Kiev, accompagnato dalla “curatrice” degli affari (nel senso letterale del termine) ucraini Victoria “fuck the UE” Nuland, con una sonora strigliata al parlamento del “paese più corrotto del mondo”. Quindi un consiglio dei Ministri, allargato ai Governatori, nel corso del quale ci si sono scambiate accuse reciproche di ladrocinio che hanno coinvolto direttamente anche il premier, con epiteti che la portavoce del Ministero degli esteri russo, Marja Zakharova, ha definito “ingiuriosi per la lingua russa”: la presenza alla riunione del governatore di Odessa, l’ex presidente yankee della Georgia Mikhail Saakašvili, aveva costretto i “patrioti” ucraini a ricorrere alla ex lingua plurinazionale sovietica.
Quindi, ecco le parole dell’ex ambasciatore USA a Kiev e direttore del Centro euroasiatico del Atlantic Council, John Herbst. “Il governatore di Odessa Mikhail Saakašvili non può lottare vittoriosamente contro la corruzione nella propria regione perché il primo ministro Arsenij Jatsenjuk e il Ministro degli interni Arsen Avakov fanno di tutto per ostacolarlo”, avrebbe detto Herbst, il cui cognome appare simbolicamente annunciare l’autunno di Jatsenjuk.
L’ex ambasciatore ha detto che la dogana di Odessa costituisce un immenso pozzo di corruzione e quando Saakašvili ha tentato di metterla sotto controllo e riformarla, il primo ministro glielo ha semplicemente impedito con un divieto che ha del geniale: occorre riformare l’intera dogana in tutto il paese e non in una regione, avrebbe detto Jatsenjuk. Che l’intervento di Herbst lasci intendere qualcosa d’altro, lo dice la semplice constatazione che anche Saakašvili – che oggi paragona il PIL ucraino, caduto al di sotto di quello del 1991, a quello dello Zimbawe – non ha tardato a mettere ai posti chiave della polizia di Odessa e delle strutture portuali (le più appetibili, anche per i traffici di petrolio) della città, propri uomini della sua vecchia guardia georgiana. Quindi, la cosiddetta “lotta alla corruzione” non è che il paravento della “lotta per la poltrona”.
Dunque, se gli stessi padrini statunitensi lanciano tali chiari avvertimenti, qualcuno reputa giunto il momento per dare la spallata a un premier il cui rating di consensi è ormai da quasi sei mesi vicino allo zero. Ecco che Julija “sterminiamo i russi del Donbass con l’atomica” Timošenko prova di nuovo a lanciare la zampata: “Jatsenjuk è inadeguato; sinceramente, mi fa paura. Aveva previsto per il 2015 un’inflazione al 26,7%; di fatto, è al 45,8%. Abbiamo un bilancio gonfiato dall’inflazione e non dalle entrate reali del paese. Aveva previsto una caduta del PIL del 5,5% e si è avuta del 9%”. La conclusione è che “Il premier deve essere chiamato a rispondere, amministrativamente e penalmente. Perché come si sta sgretolando oggi il paese, non si era mai verificato prima”, ha tuonato l’ex beniamina occidentale, icona della “rivoluzione arancione”, poi sfociata nel golpe di euromajdan.
Proprio quel golpe e quella guerra terroristica contro i civili del Donbass che oggi sfociano definitivamente, dopo un anno e mezzo di processi e controprocessi, appelli e nuove sentenze, di lotte, di minacce aperte ai militanti, di assassinii anche di deputati, nel definitivo divieto, sancito “dalla legge”, di ogni attività del Partito comunista, dopo averne sciolto da tempo la frazione parlamentare. Il cerchio cominciatosi a delineare proprio con la bionda “regina del gas”, quella che i romantici media occidentali hanno a lungo qualificato come la “pasionaria” ucraina (con ciò stesso offendendo la memoria della Pasionaria combattente contro il golpe franchista, Dolores Ibarruri) per i traffici energetici che le erano costati qualche mese di carcere; quel cerchio avviatosi con l’intervento diretto dei curatori yankee dell’Ucraina e sfociato nel golpe del febbraio 2014, oggi si completa nella trasformazione dell’Ucraina, come scrive la nnr.su, in uno stato totalitario, che non tollera manifestazione alcuna di dissenso, a dispetto dei proclami cari alla UE su democrazia e libertà.
Dopo l’adozione delle “leggi equidistanti” sulla condanna dei “regimi totalitari comunista e nazista”, che ne proibisce la simbologia e la propaganda; dopo la qualifica a “combattenti per l’indipendenza ucraina” ed “eroi nazionali”, dei reparti filonazisti inquadrati nelle SS durante la guerra mondiale, ecco che ora si completa il cosiddetto “pacchetto sulla decomunistizzazione”. La democrazia UE alla maniera di Kiev.
E poco importa che gli attori principali del dramma vengano attaccati da destra, come a voler presentare al mondo la propria “equidistanza”, la propria “democraticità”, la propria “tolleranza” verso quella gran parte della popolazione, nelle regioni più diverse del paese e non solo nel Donbass, che chiede a Kiev di poter decidere autonomamente del proprio destino e non legarlo alle scelte terroristiche del centro. Se ora i neonazisti di Pravyj sektor, in crisi e prossimi allo sfaldamento, minacciano di fare la pelle a Petro Porošenko, il presidente e la sua squadra golpista non cessano da parte loro, come scrive l’agenzia DAN, di “preparare i regali di fine anno per la Novorossija”. Il portavoce della Repubblica popolare di Donetsk continua a riferire dei forti timori per una possibilissima offensiva delle forze armate ucraine, testimoniata dall’incessante affluire di uomini e mezzi a ridosso della linea del fronte. I reparti avanzati ucraini, le cui punte di lancia sono costituite, come per il passato, dai battaglioni neonazisti e da sezioni della Guardia nazionale (cioè: parti degli stessi battaglioni, “istituzionalizzati” in una struttura ufficialmente agli ordini del Ministero degli interni) tentano in ogni modo di provocare la reazione delle milizie e aver così il pretesto per un attacco in grande stile. USA e Nato sono lì pronti a dar man forte, dicono nella DNR. Per intanto, la “decomunistazzazione” interna prepara il terreno a soffocare ogni reazione della popolazione alle avventure del regime.
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