Cizre, Silopi, Sur sono investite dalla mattina di ieri dall’ennesima, pesantissima ondata repressiva dell’esercito turco. Il ferimento da parte dei manifestanti (la polizia turca afferma siano “terroristi del Pkk”) di due agenti, ricoverati presso le strutture sanitarie di Diyarbakır, ha aumentato ancor più la stretta repressiva rivolta ai civili, fuori e dentro le proprie abitazioni.
Ci sono testimonianze di portoni divelti, intrusioni senza motivo nelle case di gente impaurita da tanta furia, di anziani e bambini investiti dalla violenza delle forze preposte a un ordine che non è tale perché usurpa l’esistenza di oltre duecentomila abitanti. E’ l’intera comunità kurda del sud-est a essere rientrata nel mirino di killer “anonimi” che colpiscono (come nel caso tuttora irrisolto dell’avvocato Elçi) e delle uniformi che gasano, picchiano, sfondano, conducendo egualmente alla morte tanti cittadini.
Com’è accaduto mercoledì notte a Hatice Şen, una quarantacinquenne madre di quattro figli, fatta bersaglio da una raffica. Oppure a Hüseyin Güzel, settantenne steso da un infarto, per i ripetuti colpi di mortaio scagliati sulla sua abitazione.
E’ la “politica del sangue” intrapresa dalla diarchia Erdoğan-Davutoğlu per conservare un potere sempre più assolutistico e autoritario. Il discorso tenuto ieri a Konya da un presidente che ha completamente abbandonato il ruolo di supervisore della politica interna (se mai è riuscito ad assumerlo nell’anno e mezzo d’investitura), è stato feroce. Introduce l’intento di quella pulizia etnica che la nazione turca ha conosciuto nei momenti del peggior kemalismo, e che i kurdi avevano drammaticamente vissuto per l’ultima volta a metà anni Novanta.
Eccone un passo: “… saranno distrutti appartamenti, case, tutte le forze di sicurezza turche, soldati, poliziotti, volontari dei villaggi (le famigerate guardie dei villaggio contro cui il movimento kurdo si batte da anni, ndr) continueranno la battaglia finché ovunque nel sud-est i terroristi verranno cancellati, finché verrà assicurata un’atmosfera di pace (sic). Non ci fermeremo! Combatteremo con la determinazione di sempre”.
Una chiamata alle armi di fatto, che amplia quel fronte del terrore avviato, in funzione anche elettorale, con gli attentati dei mesi scorsi che olezzano di Servizi o sono il frutto del servizio dei miliziani neri.
Amplia quel fronte, investendo tutti gli apparati interni della forza nella coercizione non solo della piazza, ma della vita di milioni di kurdi di Turchia. Assimilati, in questa folle equazione, all’immagine d’un fantomatico nemico della patria: il terrorista. Il riferimento ai combattenti del Partito kurdo dei lavoratori è diretto, e quest’ultimo ha oggettivamente ripreso dall’agosto scorso la via dello scontro armato, ma il parallelo giocato da Erdoğan – kurdo eguale terrorista (che si può e si deve uccidere) – oltre a un’aberrazione è una manovra losca volta a inquinare la quotidianità interna. Mira a spaccare il Paese, a contrapporre la sua gente, le etnìe comunque presenti e sempre più reali, non solo per la nota globalizzazione economica, ma per gli sconquassi geopolitici.
Nel suo giocare con le vite di tutti, come i satrapi della politica sanno ben fare, a Erdoğan non pare vero di poter utilizzare per il suo scopo l’alibi della coalizione anti Isis voluta e guidata dalla monarchia saudita con la benedizione dalla Casa Bianca. Una coalizione da rivolgere contro i terroristi che per i prìncipi Saud, sono più i ribelli Huthi che gli uomini del Califfo di Raqqa.
E per il sultano di Ankara diventano tutti i kurdi di casa la cui vita desidererebbe azzerare. Sconosciuti e noti, Öcalan e Demirtaş compresi.
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