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L’Egitto tra dittatura e repressione

La triste morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni, scoperchia e mette in evidenza quello che è diventato l’Egitto dell’ex generale Al-Sisi dal golpe militare del 2013. Dapprima la lotta contro il partito “Libertà e Giustizia” (Fratelli Musulmani-ndr) e la sua criminalizzazione, con centinaia di arresti di massa e, in seguito, la lotta contro le organizzazioni jihadiste legate alla galassia di Daesh, hanno progressivamente trasformato il paese dei faraoni in una delle più sanguinose e repressive dittature del vicino oriente. Il fermento politico, sociale e culturale, nato dopo la rivoluzione del 2011, è stato lentamente soppresso e spento dagli apparati di sicurezza e dai numerosi decreti che vietano qualsiasi tipo di dissenso contro il regime.  Le principali vittime della repressione sono state principalmente gli attivisti, i politici ed i giornalisti con centinaia di persone scomparse. La tragica morte del giovane ricercatore italiano potrebbe essere legata non tanto alla sua attività di ricerca sulle organizzazioni sindacali egiziane, ma molto più probabilmente dall’essere stato notato e fermato dagli apparati di sicurezza in un’azione repressiva o in una retata contro attivisti quel 25 gennaio, quinto anniversario dei fatti di piazza Tahrir. La terribile scomparsa del ragazzo mette in evidenza, purtroppo, la quotidianità alla quale sono soggetti gli egiziani: arresti, torture, interrogatori violentissimi e incarcerazioni, praticati nelle stazioni di polizia o del “mukhabarat”. Nella stessa maniera sono stati respinti, espulsi o incarcerati anche i giornalisti stranieri, scomodi al regime.

Questo clima non è sconosciuto a tutta una serie di attivisti che da anni denunciano il clima oppressivo e punitivo che vive un paese che da sempre è stato una delle nazioni arabe più vive e propulsive a livello politico, culturale e letterario. Purtroppo questo clima non è sconosciuto neanche agli stati europei, per prima l’Italia, o agli Stati Uniti che non si sono mai sottratti dal sostenere economicamente, militarmente e politicamente il regime di Al-Sisi, baluardo contro Daesh e il radicalismo jihadista. Ritorna come da sempre in passato l’equazione: meglio un regime dittatoriale stabile che la deriva jihadista. Quella stabilità, pagata a duro prezzo dal popolo egiziano in termini di diritti sociali, lavorativi e salariali, che garantisce agli stati occidentali una valida barriera alla galassia jihadista  del vicino e medio oriente. C’è da dire, però, che Daesh ha attecchito e si è rinforzato in Egitto, nel Sinai in particolare, per due motivi. Il primo è stato la feroce repressione politica nei confronti dei militanti islamisti appartenenti ai Fratelli Musulmani che ha colpito indiscriminatamente migliaia di persone il più delle volte innocenti. C’è da aggiungere che la presidenza di Morsi e dei Fratelli Musulmani ha evidenziato lacune legate alla mancanza di esperienza nel governare il paese per uscire da una crisi economica ormai endemica, di sapersi adeguare a quel concetto di “democrazia” o di un eccessivo dispotismo, ma non è mai sfociato in persecuzioni repressive come quelle attuate da Al-Sisi.

Il secondo è legato ad  un’organizzazione come la “Jamaat Islamiiya”, dove militava Al Zawahiri (Al Qaeda),  che, dopo una fase di declino, ha trovato in questi anni due  quell’”humus” sociale nel quale poter crescere, reclutare nuovi militanti e colpire nuovamente il paese.

Strategicamente il regime di Al-Sisi serve all’occidente. Sostiene politicamente quell’asse sunnita legato ai “valori” ed ai “principi” di libertà e democrazia sostenuti dall’Europa e dagli USA, con altri due paesi: Arabia Saudita e Turchia. Entrambe queste nazioni, infatti, applicano le stesse misure repressive e poliziesche, come in Egitto, nei confronti degli attivisti politici e dei giornalisti con retate, assassini e incarcerazioni. L’Egitto serve in politica estera: in Yemen ha sostenuto e partecipato alla coalizione saudita contro gli Houti, in Palestina mantiene l’isolamento imposto da Israele nella striscia di Gaza dal valico di Rafah e in Libia, attraverso il sostegno militare americano, italiano e francese, appare come il principale  futuro attore per un eventuale intervento bellico in territorio libico.

Questo non è, purtroppo, l’Egitto che ho conosciuto. Con i suoi rumori, gli odori e i clacson del Cairo, i caffè ed i circoli culturali pieni di gente e di fermento che hanno portato alla rivoluzione del 2011. Quell’Egitto, pieno di vitalità e fermento sociale,  era l’oggetto di studio  di un giovane ricercatore che, nella sua giovinezza spezzata, ha visto ancora un nuovo fermento sociale nelle organizzazioni sindacali o politiche che non si piegano alla repressione, qualsiasi sia stato il vile mandante dell’omicidio. Ciao Giulio.

Stefano Mauro

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