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Egitto, lo sterminio come vendetta

Diecimila a uno” è il rapporto della rappresaglia che, non un poliziotto qualsiasi o un capitano dell’esercito, ma direttamente il ministro egiziano alla Giustizia, Ahmed al-Zind, vorrebbe applicare quando cade qualche membro delle Forze Armate. I diecimila da eliminare sarebbero attivisti della Fratellanza Musulmana. La minaccia non è enunciata in una cena fra generali, bensì davanti alle telecamere durante uno show su una tivù satellitare. Va diretto a quella pubblica opinione che, nutrita a odio e paranoie sui nemici interni ed esterni, viene abituata a non considerare rapimenti, torture e uccisioni di concittadini, attivisti islamici e non, oppure stranieri che risultano sempre in odore d’infiltrazione per danneggiare il progetto del grande Egitto di Abd Fattah Sisi. Così al ritrovamento d’un cadavere per strada, come quello di Giulio Regeni su cui prosegue il balletto delle falsità governative incentrato sulla tesi dell’omicidio criminale, nessuno si chiede cosa accade e perché. Anzi si pensa che il ficcanaso di turno, amico dei nemici, sia stato definitivamente “reso innocuo”.  E’ questo il modello di sistema poliziesco, una dittatura legalizzata, che il generale-presidente va costruendo con benestare dell’Occidente e dei partner del Golfo.
L’organizzazione Human Rights Watch si domanda e auspica che Sisi in persona intervenga a censurare il suo ministro, ma l’ipotesi forse si rivelerà l’ennesima speranza irrisolta. Finora nessun politico o nessuna autorità giudiziaria ha controbattuto alla pesantissima affermazione del ministro che, nonostante gli attacchi subìti da militari durante attentati di gruppi armati vicini all’Isis, cercano capri espiatori unicamente nella Brotherhood.  Recentemente un gruppo di avvocati dei diritti ha chiesto un intervento del procuratore Generale che accusasse il ministro d’incitamento all’assassinio, senza alcun esito. I poteri speciali di cui gode il dicastero proprio verso le carriere dei giudici sembrano rendere al-Zind inattaccabile. Dal golpe del 3 luglio 2013 il corpo giudiziario ha rilasciato un’infinità di condanne capitali e di migliaia d’anni di reclusione a membri e simpatizzanti del movimento islamico anche in assenza di prove sui capi d’imputazione. L’Ong ricorda come, in occasione della prima visita estera due anni or sono, Sisi dichiarava alla Bbc che non era il governo a dover decidere sulla sorte della Confraternita, ma il popolo egiziano.
Veniva accantonata l’idea che una parte della popolazione del paese si rispecchia in quella componente politica, non solo nelle elezioni effettuate dopo la caduta di Mubarak e poi in occasione dell’elezione di Morsi. Sisi soprattutto nasconde come il suo apparato politico-amministrativo, espressione della lobby militare, perseguiti la Fratellanza e ogni opposizione al nuovo regime. Gli articoli costituzionali numero 53 e 20 sanciscono che la discriminazione e l’incitamento all’odio sono crimini punibili per legge, mentre le strutture governative devono astenersi da evocare in ogni discorso riferimenti violenti, discriminatori e ostili verso singoli o gruppi sociali. Accade l’esatto contrario. La forza del progetto di Sisi sta nella manipolazione delle leggi, nell’abuso delle stesse, nell’attuare una prassi repressiva eccezionale in forma legalitaria, così da potersi tutelarsi anche da richiami ai diritti come questo ricordato da HRW e perfino da ipotetiche campagne internazionali. Forse solo un embargo economico farebbe cambiare rotta al sanguinario dal sorriso bonario. Ma un simile passo cancellerie, ministeri economici e businessmen d’ogni latitudine si guardano bene dal farlo. 

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