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Aleppo? No, Cizre. Il mondo chiude gli occhi sul massacro dei curdi

Forse una parte del grande pubblico italiano ha scoperto solo ieri sera, grazie ad un servizio andato in onda su Raitre nell’ambito della trasmissione di Riccardo Iacona “Presa Diretta”, l’entità della selvaggia e brutale repressione alla quale il regime turco sottopone il popolo curdo. Ammesso che di “grande pubblico” si possa parlare a proposito di un servizio trasmesso alle 23 sulla rete del servizio pubblico meno vista e comunque all’interno di una trasmissione di approfondimento e non certo di un talk show (quelli sì che hanno milioni di telespettatori…).

Per qualche minuto i forse fino a quel momento ignari utenti hanno potuto vedere le immagini dei carri armati usati contro gli edifici delle città curde, il centro storico di Diyarbakir ridotto in macerie, i parenti delle vittime della repressione accusare l’Ue di regalare soldi ad Ankara che li usa per finanziare la guerra contro il popolo curdo, giornalisti indipendenti raccontare degli invii di armi ai jihadisti siriani da parte dei servizi segreti turchi, media-attivisti siriani descrivere il crescente e inquietante radicamento dello Stato Islamico all’interno del paese.
E nel servizio mancava forse un’immagine che più di tante parole avrebbe descritto la politica di uno stato che considera i curdi – del Pkk, dell’Hdp, o semplicemente normali cittadini di lingua e cultura curda – come i principali nemici dello Stato, assai più pericolosi dei jihadisti dell’Isis che pure lanciano missili contro le case delle città al confine con la Siria, assassinano giornalisti impiccioni o fanno esplodere bombe tra la folla. L’immagine delle case di Cizre, distretto della città di Sirnak, rase al suolo e distrutte dai bombardamenti delle forze armate turche che grazie al coprifuoco e al blocco delle comunicazioni con l’esterno hanno prodotto un massacro che la grande stampa internazionale si è ben guardata dal raccontare e denunciare.


D’altronde il regime turco protegge e foraggia i jihadisti che spargono il terrore in Medio Oriente e sempre più spesso anche nelle capitali europee, ma la Turchia è agli occhi delle cancellerie occidentali ancora una fondamentale pedina attraverso cui tentare di affermare i propri interessi nell’area, oltre che uno dei più importanti baluardi della Nato.
E quindi il grande pubblico di cui sopra non ha saputo dei 224 civili – tra cui 42 bambini, 31 donne e 30 anziani – che secondo la Fondazione per i diritti umani in Turchia (Tihv) sono stati uccisi a causa dei bombardamenti e dei tiri dei cecchini sulle case e sulle strade di 7 città del Kurdistan turco tra la metà di agosto e l’inizio di febbraio. Un bilancio che, vista la recrudescenza della repressione degli ultimi giorni, va più che raddoppiato. Nel conteggio del Tihv infatti non ci sono i 250 morti di Cizre, molti dei quali bruciati vivi dai soldati turchi all’interno degli edifici e dei sotterranei dove avevano tentato di rifugiarsi. Un massacro compiuto grazie al coprifuoco e all’accerchiamento di quartieri e città dove vivono – in alcuni casi vivevano – centinaia di migliaia di persone prese in trappola. Bersagliate dall’artiglieria, dai colpi dei cecchini, senza acqua né cibo né elettricità per settimane, mesi. Esattamente come ad Aleppo, o ad Homs. E anche a Sur, la parte antica di Diyarbakir dichiarata patrimonio dell’Unesco, negli ultimi giorni la situazione si è fatta ancora più tragica con decine di migliaia di residenti che tentano di sfuggire alle cannonate dell’esercito turco.
Un genocidio secondo il leader del Partito Democratico dei Popoli Selahattin Demirtas, effetti collaterali della guerra del regime turco contro i ‘terroristi’ del Pkk secondo il ministro degli interni di Ankara. La comunità internazionale non vede e non sente, ha altro a cui pensare. Il Kurdistan non è la Siria, Cizre non può e non deve essere associata ad Aleppo.

Non c’è da stupirsi che la guerriglia curda abbia interrotto nel corso della scorsa estate la tregua dichiarata in nome di un processo di pace che il regime turco non ha mai permesso che andasse avanti e che ha esplicitamente violato quando ha cominciato a colpire con estrema durezza le postazioni del Pkk in Anatolia e sui monti dell’Iraq e poi anche quelle dell’Ypg nel Rojava siriano.
Mentre le operazioni militari del Pkk contro le forze armate turche continuano incessanti da agosto (il conteggio delle vittime tra i militari e i poliziotti è arrivato ad alcune centinaia) nel fine settimana i Falchi per la Liberazione del Kurdistan (Tak) hanno rivendicato il sanguinoso attacco che il 17 febbraio ha causato la morte di 27 soldati e di una funzionaria del Ministero della Difesa ad Ankara. Il regime di Erdogan, come aveva già fatto in precedenza per giustificare la guerra senza quartiere contro le organizzazioni curde all’interno e all’esterno dei propri confini, aveva immediatamente accusato i combattenti delle Unità di Difesa Popolare del Kurdistan siriano di essere i responsabili materiali dell’attacco, in collaborazione con i loro “complici” del Pkk. Le due organizzazioni avevano smentito ogni legame con quanto avvenuto nella capitale turca, e poi è arrivata la rivendicazione da parte del gruppo nato nel 1993 e che nel 2005 ha rotto con il Pkk per dissidi di tipo organizzativo e ideologico. Nella rivendicazione il gruppo armato, poco attivo negli ultimi anni, ha giustificato il proprio attacco come necessaria risposta al massacro del popolo curdo da parte degli apparati dello stato turco, denunciando in particolare quando avvenuto a Cizre.
In queste ore, a conferma della rivendicazione, il padre di Abdulbaki Sönmez, proveniente dalla città di Van (nell’est della Turchia al confine con l’Iran), il presunto autore dell’attacco compiuto a nome dei Tak, ha confermato che l’uomo ritratto nelle fotografie pubblicate dalle forze di sicurezza è il figlio, di cui era stata denunciata la scomparsa nel 2005 quando il ragazzo era entrato in clandestinità. L’ennesima smentita di quanto affermato poco dopo l’attacco dalle massime autorità turche, secondo le quali l’attentatore era invece un curdo siriano, Salih Neccar, legato alle Unità di protezione popolare (Ypg) e ai servizi segreti di Damasco.
Una ricostruzione di comodo che Ankara continua a difendere mentre i suoi apparati di sicurezza continuano le retate ai danni degli attivisti curdi e della sinistra antagonista turca. Proprio all’alba di oggi 14 persone sono state arrestate perché sospettate di aver preso parte in qualche modo all’attentato del 17 febbraio: gli attivisti sono stati arrestati, affermano i media turchi, per aver sostenuto un’organizzazione terroristica armata, per falsificazione di documenti e frode. Altre sette persone che erano state fermate sono invece state rilasciate dopo l’interrogatorio da parte dei magistrati.
Intanto ieri la polizia turca, in assetto antisommossa, ha usato i lacrimogeni, gli idranti e i manganelli contro alcune migliaia di manifestanti che ad Artvin, città vicina al Mar Nero, tentavano di impedire la costruzione di una miniera all’interno di una riserva naturale che ospita un’antica foresta. La repressione contro i cittadini che protestavano contro il progetto di realizzazione di una miniera di oro e di rame in un’area teoricamente protetta ha causato ventisei feriti, uno dei quali in gravi condizioni. Le cariche sarebbero scattate quando i manifestanti, tra i quali molte donne, hanno cercato di superare una barriera che impediva l’accesso alla collina di Cerattepe, a dodici chilometri dalla città. A gestire il contestato progetto è la società Cengiz Holding: l’amministratore delegato è il magnate Mehmet Cengiz, considerato uno stretto alleato del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sabato il primo ministro Ahmet Davutoglu aveva dichiarato che il progetto “non costituisce assolutamente un pericolo per l’ambiente” e aveva minacciato esplicitamente i manifestanti contro “ogni provocazione”.

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