“C’è la tregua”, hanno annunciato Stati Uniti e Russia, convinti di poter convincere anche gli altri 15 paesi coinvolti nella gestione della crisi siriana ad accettare i risultati del negoziato tra le due grandi potenze. Ed infatti ieri è arrivata anche l’adesione sia del governo di Damasco che di alcune delle opposizioni, che hanno accettato di sospendere le azioni militari a partire dalla mezzanotte di sabato.
Ci vorrà poco, quindi, per capire se l’accordo reggerà o meno. Le contraddizioni e le doppiezze non mancano. Intanto perché dall’accordo di cessate il fuoco sono esclusi gli attacchi contro Stato Islamico e al Qaeda che, bontà sua, anche l’amministrazione statunitense riconosce come “forze terroristiche”. Il che vuol dire che i combattimenti continueranno, e che le forze lealiste e gli alleati di Damasco, e i curdi, e le aviazioni di Mosca e Washington (seppur con diversi gradi di determinazione) continueranno a bombardare i jihadisti di Daesh e di al Nusra. E che le due organizzazioni cercheranno di destabilizzare quanto più possibile il fragile equilibrio raggiunto (forse) tra i diversi schieramenti, affidandosi magari sempre di più alle stragi di civili, ai kamikaze e alle autobomba così come già fatto nelle ultime settimane a Damasco e Homs.
Inoltre in molte zone le milizie dei due gruppi sono presenti a macchia di leopardo, incuneate all’interno di territori e città controllati magari da organizzazioni jihadiste che la Russia, Damasco e Teheran considerano alla stregua di Daesh e al Nusra (avendo molte di queste, con quest’ultima, una affinità enorme e forti collegamenti di tipo organizzativo) ma non Washington, che esattamente come Riad e Ankara le considera come ‘legittimi rappresentanti del popolo siriano’ e ‘opposizioni legittime’ al governo.
Un puzzle, come si vede, più che esplosivo, una matassa difficile da districare, in cui le aree controllate dai gruppi fondamentalisti si intersecano e si sovrappongono. Il rischio quindi che le operazioni permesse dall’accordo di parziale cessate il fuoco coinvolgano anche i salafiti di Ahrar al-Islam o di Jaysh al-Islam o altre sigle minori, o le poche brigate dell’Esercito Siriano Libero sopravvissute all’ascesa jihadista, è molto alto. I gruppi ribelli ‘riconosciuti’ da petromonarchie e occidente potrebbero “coprire” alcune delle milizie più estremiste ed approfittarne per colpire le forze governative, mentre sul fronte opposto i lealisti potrebbero cercare di approfittare della situazione per colpire i gruppi più consistenti della ribellione jihadista sfruttando la possibilità di continuare a martellare Daesh e al Nusra, che comunque controllano più di un terzo della superficie totale del paese. E ovviamente le truppe siriane, le milizie sciite e quelle curde difficilmente toglieranno gli assedi alle località in cui i ribelli fondamentalisti sono rintanati in posizione di svantaggio.
Inoltre, come era prevedibile, molti gruppi della cosiddetta ‘opposizione legittima’ hanno respinto la mediazione di Mosca e Washington ed hanno annunciato che continueranno a combattere. E questo nonostante il fatto che dalla riunione tenuta a Riad dall’HNC – l’Alto Comitato per i Negoziati, cioè la federazione dei gruppi manovrati dalle petromonarchie e dagli altri paesi dell’asse sunnita – fosse giunto lunedì un generico assenso all’accordo raggiunto da Putin e Obama. Anche i turchi, che fremono da tempo per invadere il nord della Siria e stabilire una loro “zona cuscinetto”, e che hanno decine di migliaia di soldati, carri armati e cannoni schierati alla frontiera (e alcune centinaia già in territorio siriano) sostenuti anche da caccia sauditi, sembrano poco inclini ad accettare quanto deciso dalle grandi potenze. Ed Ankara ha fatto comunque sapere che continuerà i bombardamenti contro le Ypg curde, considerate un ‘gruppo terrorista’ e un pericolo per la sicurezza della Turchia.
In questo più che caotico e instabile quadro non poteva quindi che destare stupore la convocazione, da parte del presidente siriano Assad, di elezioni generali in tutte le 14 province del paese. Ovviamente il regime siriano vuole arrivare al più presto ad una nuova legittimazione per poter trattare adeguatamente con le potenze coinvolte nella crisi (e in molti casi responsabili della guerra civile che dura ormai da 5 anni). Ma difficilmente il voto del 13 aprile potrà superare un valore puramente simbolico: quasi metà del paese è controllato dalle forze jihadiste di vario tipo, e difficilmente le opposizioni cosiddette moderate permetteranno che chi vuole possa partecipare alle elezioni; milioni di cittadini sono rifugiati all’estero e un numero superiore vivono in condizione di sfollati all’interno di regioni ‘sicure’ della Siria dopo aver abbandonato le proprie case, in tutto la metà della popolazione siriana.
La situazione, quindi, è tutt’altro che tranquillizzante. Anzi.
Perché nessuno schieramento da solo può vincere nettamente: la guerra che si combatte sul terreno infatti è il riflesso di uno scontro tra schieramenti internazionali che vedono il coinvolgimento di potenze regionali e mondiali. Ogni mossa genera una contromossa. Fino a settembre stavano pian piano prevalendo i jihadisti di vario colore, grazie al massiccio sostegno da parte delle potenze dell’asse sunnita e del debole intervento di Usa ed Ue contro l’Isis. Solo il massiccio intervento militare russo alla fine di settembre ha invertito la tendenza, permettendo alle truppe lealiste e agli alleati libanesi e siriani – parallelamente alle milizie curde sostenute tanto da Mosca quanto da Washington – di guadagnare rapidamente terreno e riconquistare consistenti fette di territorio e località strategiche. Un rovesciamento della situazione che ha ‘obbligato’ sauditi e turchi ad aumentare ancora di più il loro sostegno alle varie formazioni jihadiste e a preparare l’invasione del territorio siriano proprio per impedire la vittoria totale dei lealisti, mentre le artiglierie di Ankara bersagliano le postazioni delle Ypg curde nel nord del Paese per evitare che il confine tra Turchia e Siria venga sigillato e sia tagliata quindi la via per i rifornimenti di armi e rinforzi alle milizie fondamentaliste.
Ma un intervento diretto sul suolo siriano di Riad ed Ankara provocherebbe una immediata e dura reazione sia delle forze sciite di tutto il Medio Oriente sia dei Russi, e metterebbe gli Stati Uniti e gli europei in profondo ‘imbarazzo’. Washington, come d’altronde Bruxelles, non vuole l’eliminazione delle milizie jihadiste, che possono sempre tornare utili in uno scenario balcanizzato contraddistinto dal ‘tutti contro tutti’; ma non può neanche accettare che le potenze sunnite si impossessino della Siria tagliando di fatto fuori gli interessi economici, militari e geopolitici occidentali. A meno di non continuare a considerare sauditi e turchi come mere pedine di Washington, il che non è più vero ormai da parecchio tempo.
Questo vuol dire che gli scenari possibili sono tendenzialmente solo due. O uno degli schieramenti principali forza la mano facendo saltare del tutto la trattativa e punta ad una vittoria militare, rischiando seriamente però di scatenare una guerra di grandi proporzioni con il coinvolgimento delle grandi potenze. Oppure i vari schieramenti accettano di cristallizzare – più o meno – lo status quo, cioè di riconoscere la spartizione della Siria in diverse aree di influenza.
Uno scenario, quest’ultimo, che per il momento potrebbe soddisfare la maggior parte dei contendenti: i curdi che potrebbero così consolidare il proprio autogoverno nelle aree liberate e governate dal Pyd; il governo siriano che potrebbe avviare la ricostruzione e riorganizzarsi; alcune delle organizzazioni jihadiste legate più strettamente alle potenze sunnite, attualmente in fortissima difficoltà; gli Stati Uniti e la Russia, che temono la deflagrazione della situazione e spingono per un compromesso per quanto instabile e foriero di nuove esplosioni.
Da questo scenario di parziale normalizzazione e di coesistenza sul suolo siriano di diverse aree di influenza, però, rimarrebbero fuori Daesh e al Nusra, che potrebbero a quel punto tentare di far saltare il tavolo, magari andando ad una unificazione più volte rimandata a causa più delle rivalità tra le due leadership e dei condizionamenti dei vari sponsor internazionali che di una seria differenza ideologica o organizzativa. Ed anche la Turchia sembra ‘impossibilitata’ a rinunciare alle sue mire sul paese confinante, ossessionata com’è dal pericolo della costituzione di uno stato curdo più o meno indipendente (o di qualcosa di simile) che dal Rojava siriano si propaghi fino a Diyarbakir e alle altre città del Kurdistan turco che l’esercito di Ankara sta cannoneggiando da mesi.
Anche i sauditi, che pure potrebbero aderire formalmente al ‘cessate il fuoco’, potrebbero giocare sporco, tentando di estendere la destabilizzazione anche al Libano e continuando a provocare Teheran. L’annullamento della fornitura di 4 miliardi di aiuti militari al governo di Beirut ha già fatto saltare la difficile coesistenza tra i fronti libanesi pro e anti sauditi, e la messa a morte di 30 esponenti della minoranza sciita da parte del governo di Riad rischia di infiammare di nuovo tutto il Medio Oriente.
Che la tregua siglata da Obama e Putin tenga o meno, lo scenario più probabile è che la guerra, le stragi, le sofferenze della popolazione continuino. A “bassa intensità” nel migliore dei casi, degenerando in una ‘guerra mondiale’ nel peggiore.
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