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Sanders e i Panama Papers: nel 2011 era già tutto chiaro

Era l’ottobre del 2011 quando l’allora senatore Bernie Sanders si oppose al «Panama Free Trade Agreement», un accordo di natura commerciale che coinvolgeva gli Stati Uniti, il Messico e Panama, con tariffe doganali concordate su beni come rame, alluminio, autoveicoli, cosmetici, frutta e così via. Sanders sosteneva che un affare del genere sarebbe stato un bel regalo a tutte quelle corporation intenzionate a evadere le tasse e a nascondere così i propri soldi in quel paradiso fiscale chiamato Panama.

«Cinque anni dopo – si legge sul profilo Facebook del candidato alle primarie del Partito Democratico – con il caso Panama Papers, sembra proprio che Bernie avesse ragione». In effetti, dal gigantesco leak uscito fuori meno di due giorni fa si vede come 214.000 società offshore abbiano usato proprio Panama per sfuggire dal fisco. «Tutta la produzione economica di Panama ammonta a soli 26.7 miliardi di dollari – disse Sanders nel 2011 –, una cifra che sarebbe circa i due decimi dell’uno per cento dell’economia statunitense. Nessuno può pensare in buona fede che questo accordo avrà effetti significativi sui posti di lavoro negli Stati Uniti. Allora perché dovremmo considerare questo accordo? Be’, si scopre che Panama è leader mondiale quando si tratta di permettere ai ricchi e alle grandi aziende di evadere il fisco degli Stati Uniti. Il Panama Free Trade Agreement finirà con il peggiorare molto questa brutta situazione».

I Panama Papers potrebbero avere un impatto non indifferente sulla campagna elettorale in atto. Come? «Le primarie democratiche – si legge in un’analisi firmata da Matthew Turner sull’Independent – sono state caratterizzate dalla rabbia nei confronti delle élite globali. Lo scandalo Panama Papers finirà con il dare carburante all’indignazione popolare e questo finirà con il penalizzare quelle figure vicine all’establishment che hanno consentito questa enorme ingiustizia». Vi viene in mente un nome? Hillary Clinton, per quanto goda di una popolarità non indifferente tra i cosiddetti moderati, è vista da tutti come espressione di un insieme di potentati: quello economico delle grandi industrie, quello politico che cominciò con suo marito Bill, quello finanziario che ha sede a Wall Street. «Sanders è l’unico candidato che ancora parla dell’un percento contro il 99 percento – prosegue ancora Turner, citando lo slogan più famoso partito dalla stagione di Occupy –. Più a lungo la questione Panama Papers andrà avanti e più ci saranno benefici per Sanders. E quanti più scheletri usciranno dall’armadio della Clinton, tanto più aumentano le possibilità che Bernie finisca alla Casa Bianca».

Non è che ci volesse un genio per capire che chi ha i miliardi in banca tenda ad appoggiarsi spesso e volentieri sui cosiddetti paradisi fiscali, ma i Panama Papers si presentano come una vera e propria mina fatta di nomi, luoghi e date spalmati su 11.5 milioni di documenti usciti fuori dallo studio legale Mossack Fonseca: una storia che sta facendo breccia nell’opinione pubblica statunitense e che si sta rivelando un po’ come la rappresentazione plastica su base reale delle teorie del socialista Sanders, uno che sta promettendo la «rivoluzione politica contro la classe dei miliardari».

Mario Di Vito

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