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Escalation tra Riad e Washington. Gli Usa: “i Saud dietro l’11 settembre”

Il mondo cambia molto in fretta, come abbiamo più volte provato a raccontare da questo giornale. Ad esempio, mai le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita erano state così tese e la visita di Barack Obama nella petromonarchia, prevista per domani, si annuncia davvero irta di ostacoli.
L’inquilino della Casa Bianca viaggerà a Riad con l’obiettivo di ricucire i rapporti, assai deteriorati, con il tradizionale alleato in Medio Oriente, ma i rapporti tra i due paesi sono ormai al minimo e i toni tra Washington e Riad si stanno alzando su parecchie questioni. La casa reale saudita non ha perdonato a Washington l’accordo sul nucleare con l’Iran che ha portato alla cancellazione della maggior parte delle sanzioni internazionali contro Teheran, che nel frattempo ha recuperato ruolo ed egemonia in Siria grazie all’intervento russo e nello Yemen, dove la massiccia campagna di bombardamenti e poi una vera e propria invasione e occupazione del paese non sono riuscite a spazzare via la ribellione degli sciiti Houthi calati dal nord sulla capitale Sana’a.
Ed ora, paradossalmente, a gettare benzina sul fuoco sono i repubblicani che hanno presentato un disegno di legge al Congresso nonostante l’opposizione della Casa Bianca.
I tradizionali supporters delle relazioni privilegiate con la petromonarchia non hanno affatto digerito le aspirazioni da grande potenza di Riad e i sempre più numerosi conflitti con Washington i cui interessi e le cui strategie in Medio Oriente sono sempre più spesso disattesi dal regime wahabita che punta ormai esplicitamente ad estendere la sua egemonia anche a costo di continuare a sostenere, finanziare e armare le correnti jihadiste che, seppur timidamente, gli Stati Uniti si sono da poco più di un anno decisi a combattere. Ormai crescono gli ambienti e gli esponenti politici che cominciano a considerare e a parlare del tradizionale alleato come di una minaccia alla sicurezza del Medio Oriente e agli interessi strategici di Washington.
Quella confezionata dai repubblicani è una vera e propria bomba che rischia di scoppiare nelle mani di Obama ma soprattutto di chi gli succederà alla Casa Bianca: un provvedimento legislativo che renderebbe, se approvato, l’Arabia Saudita responsabile penalmente per qualsiasi ruolo giocato negli attacchi terroristici realizzati a New York l’11 settembre del 2001. Se passasse il “Justice against sponsors of terrorism act bill” le immunità concesse ai vari stati da una legge del 1976 verrebbero meno nel caso in cui il paese in questione venga riconosciuto responsabile di aver organizzato attacchi terroristici che abbiano ucciso cittadini statunitensi all’interno dei confini degli States. Obama si oppone al testo perché porterebbe lo scontro con Riad a livelli parossistici proprio mentre l’influenza di Washington in Medio Oriente è al minimo. Ed anche perché, spiegano i media statunitensi, il presidente teme che si crei un precedente che potrebbe essere adottato da vari paesi proprio a svantaggio degli Stati Uniti. La reazione del regime wahabita alla misura in discussione al Congresso di Washington è stata immediata e durissima: Riad ha minacciato di vendere tutti i titoli del debito statunitensi e gli investimenti, un colpo da ben 750 miliardi di dollari.
Ma la proposta supportata da un dossier di 28 pagine che rivelerebbero, affermano fonti statunitensi, gravissime responsabilità da parte del regime saudita nel finanziamento e nella copertura degli attentatori. E’ stato lo stesso Obama – forse tentando di utilizzare la questione come un argomento per convincere i Saud a più miti consigli – a parlare dell’esistenza di questo dossier, che l’intelligence a stelle e strisce sarebbe sul punto di rendere pubblico, nel corso di un’intervista alla CBS. Se i repubblicani premono per mettere Riad nella lista nera, da parte sua alcuni esponenti del Partito Democratico, in particolare, tra i quali la leader della minoranza parlamentare Nancy Pelosi, insistono affinché il dossier venga desecretato, supportati da un certo numero di famiglie delle vittime della distruzione delle Torri Gemelle. Per quel che se ne sa il rapporto fu stilato nel 2002 dalla Commissione d’Inchiesta parlamentare congiunta sull’attività dei servizi segreti, e subito secretato dall’allora presidente repubblicano George W. Bush. All’epoca la classe dirigente statunitense andava ancora d’amore e d’accordo con la casa reale saudita e anche con la famiglia Bin Laden, e non sembrò il caso di raccontare al paese e all’opinione pubblica internazionale che gli amici sauditi avevano avuto un ruolo chiave nella creazione di al Qaeda e nel finanziamento offerto ai 19 dirottatori e attentatori (di cui ben 15 di nazionalità saudita) che seminarono il terrore negli States. Già allora si evidenziava il ruolo svolto dal principe Turki bin Faisal, allora capo dell’intelligence di Riad, e dal principe Bandar bin Sultan, allora ambasciatore saudita a Washington e frequentatore assiduo di casa Bush. Ma le prove raccolte nel dossier, della relazione tra l’Arabia Saudita, al Qaeda e l’attacco alle Torri Gemelle sarebbero anche più dettagliate e numerose, tanto che da tempo l’ex senatore Bob Graham, che della Commissione d’inchiesta fu presidente, ne ha più volte chiesto la declassificazione. Per lungo tempo l’amministrazione statunitense ha coperto la questione. Ma se fino ad ora il grande pubblico statunitense – e quello internazionale – è stato tenuto all’oscuro delle responsabilità saudite negli attacchi terroristici negli Stati Uniti, ecco che improvvisamente l’argomento diventa di pubblico dominio proprio nel momento in cui il conflitto geopolitico tra Washington e Riad supera l’asticella su numerosi fronti.
Ad esempio quello del petrolio, dopo che il crollo del prezzo del greggio perseguito da Riad ha gravemente colpito l’industria statunitense dello shale oil, quello estratto con la tecnica del fracking e che è redditizio solo a partire da un prezzo di almeno 55-60 dollari al barile. Ora però i sauditi insistono che non accettano alcuna limitazione della produzione di petrolio finché gli iraniani non faranno altrettanto. Ma da parte sua Teheran vuole tornare a estrarre e ad esportare greggio a pieno regime sfruttando la rimozione delle sanzioni occidentali, avvenuta a gennaio con l’implementazione dell’intesa sul nucleare siglata l’estate scorsa tra le principali potenze mondiali.
Sono state proprio le forti tensioni tra Arabia Saudita ed Iran che hanno causato il fallimento domenica dell’ultimo vertice dei paesi produttori svoltosi in Qatar, il che ha messo gli Stati Uniti in una situazione assai complicata facendo, a quanto sembra, precipitare una tendenza allo scontro con Riad che negli ultimi anni ha vissuto una vera e propria escalation di cui ci parlano due interessanti articoli pubblicati questa mattina su Il Sole 24 Ore.

 

Se l’Arabia diventa una potenza «destabilizzante»

Ugo Tramballi – Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2016

Per decenni è stata un simbolo di cautela nel bazar mediorientale, nei suoi delicati e mutevoli equilibri. Da un paio d’anni si muove invece con l’apparente grevità di un elefante nel negozio di porcellane. Dal vertice petrolifero di Doha alla decisiva visita di Barack Obama in questi giorni a Riyadh, l’Arabia Saudita sembra volersi comportare come la potenza volutamente destabilizzante della regione. Cosa è accaduto al regno dei sussurri, della fede e dei petroldollari perché cambiasse in questo modo?

Evidentemente il mutamento americano: con Obama gli Stati Uniti hanno smesso di praticare l’arte del realismo politico, scegliendo la via dei suoi valori democratici, dei suoi interessi interni e del disimpegno dalla regione. Nella storia dell’inossidabile alleanza fondata sul petrolio e la geopolitica, sulla divisione dei compiti fra denaro saudita e presenza militare americana, ci sono stati altri momenti di tensione: il riconoscimento americano d’Israele nel 1948, l’embargo petrolifero del 1973, la caduta di Mubarak in Egitto nel 2011. Mai però interessi e comportamenti erano stati così contrastanti.

Tuttavia non si può comprendere la nuova versione interventista e unilateralista saudita, senza tenere conto che per la prima volta in più di 50 anni e dopo tre monarchi ultra-ottantenni, il regno oggi è governato da una nuova generazione di principi. Re Salman è l’ultimo degli ottantenni: ma il suo erede e nipote Mohammed bin Nayef ha 56 anni e il vice-erede e figlio Mohammed bin Salman ne ha poco più di 30. E sono loro che governano il paese. Mohammed il nipote è per educazione politica vicino agli Stati Uniti: ha studiato in un’università americana e alla scuola dell’Fbi. Mohammed il figlio, il più giovane, parla solo l’arabo e la sua educazione è avvenuta interamente in Arabia Saudita.

Le riforme interne che aveva avviato re Abdullah, morto nel gennaio 2015, sono state sospese. Il clero wahabita ha più potere di prima e giusto alcuni giorni fa 140 saggi hanno inviato al re una petizione per una lotta senza quartiere in tutto il mondo islamico contro «i satanici safavidi iraniani»: la dinastia che nel XVI secolo impose la fede sciita alla Persia.

La versione saudita degli avvenimenti mediorientali di questi anni è che l’origine e la diffusione del terrorismo islamico è nell’Iran khomeinista. A Riyadh rivendicano un’innocenza che non hanno. A partire dagli anni ’80 l’Arabia Saudita ha finanziato la diffusione dell’Islam ovunque nel mondo ci fossero musulmani. Non c’era villaggio africano o dell’Asia più povera, nel quale i sauditi non finanziassero la costruzione del pozzo, della moschea e il salario di un predicatore salafita. È in questo brodo di coltura che è nato l’estremismo.

Ma al tempo stesso i sauditi non hanno del tutto torto. Fu la rivoluzione iraniana del 1979 e le sue ambizioni regionali a creare un fatto nuovo. L’espansionismo laico imperiale dello Shah veniva sostituito da quello settario, dichiaratamente religioso e sciita della repubblica islamica, la prima nella regione dopo decenni di nazionalismi e nasserismo.

In questo contesto sono arrivate le primavere arabe, cioè la caduta di tutti i rais sunniti, assecondata quando non direttamente eseguita dagli Stati Uniti; il disimpegno militare americano e l’apertura politica all’Iran. Per decenni il Medio Oriente era stata una questione sunnita con l’Arabia Saudita nel ruolo di moderatore, ufficiale pagatore e subliminale direttore d’orchestra. Oggi nel sistema mediorientale sono entrate stabilmente la Turchia (protettrice dei Fratelli musulmani invisi a Riyadh) e soprattutto l’Iran. Ultima ragione di preoccupazione, ma non la meno importante, è l’ingresso sul mercato petrolifero dello shale americano e il ritorno di quello iraniano.

Se l’obiettivo americano – e russo – è di sconfiggere l’Isis e ripristinare un ordine regionale, l’impresa non è possibile senza l’Arabia Saudita. La visita di Barack Obama, che nella sua presidenza ha garantito a Riyadh aiuti militari per 95 miliardi di dollari, è l’ultima seria opportunità per ascoltare e dare una risposta alle ansie del regno, inadeguato alla modernità ma necessario. Se Obama non ci riuscirà, si creerà un vuoto fino a gennaio, quando entrerà in carica un nuovo presidente degli Stati Uniti: posto che, chiunque sia, abbia idee migliori. Ma il Medio Oriente non ha nove mesi di tempo.
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La guerra del greggio tra Arabia e Iran

Alberto Negri – Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2016

L’ascesa della mezzaluna sciita è al cuore del conflitto tra iraniani e sauditi che ormai minacciano di colpirsi a vicenda. La rivalità tra Iran e Arabia Saudita non finisce certo a Doha: questo è oggi il fattore più destabilizzante del Medio Oriente ed è destinato a continuare oltre la guerra del petrolio iniziata dai sauditi nel 2014 per indebolire Teheran con la sovrapproduzione e il calo dei prezzi. Le tensioni sono destinate a ripercuotersi in Siria, in Iraq, in Libano e nello Yemen, dove sauditi e iraniani si affrontano in sanguinose guerre per procura.

Lo scontro, cominciato con lo scisma tra sciiti e sunniti originato della battaglia di Kerbala nel 680, risale in tempi più recenti al 1979, anno della rivoluzione iraniana che con l’Imam Khomeini non solo spazzò via l’effimero impero dello Shah ma fece tremare anche le monarchie assolute del Golfo. Per contrastare la repubblica islamica, l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo finanziarono la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran: 50-60 miliardi di dollari vennero inutilmente bruciati nelle paludi dello Shatt el Arab insieme a un milione di morti. Teheran per quella guerra durata otto anni non ha mai perdonato i sauditi: era questa un’altra puntata del secolare conflitto tra arabi e persiani.

Lo scontro è una rivalità di potenza per il controllo del Golfo ma è anche ideologico-religioso per l’influenza nel mondo musulmano. Con la sua teocrazia Khomeini ha realizzato una repubblica dove sia pure in modo assai controllato e manovrato dall’alto si svolgono elezioni da 37 anni mentre l’Arabia Saudita è una monarchia in pugno a una dinastia familiare con cinquemila prìncipi del sangue che rivendica il titolo di Custode della Mecca e della Medina. I due sistemi sono antitetici e per gli sciiti il fondamentalismo wahabita è diventato un termine usato come insulto: “tafkiri” per Teheran sono i sauditi ma anche i jihadisti dell’Isis. A loro volta i sauditi sono soliti denigrare gli sciiti come miscredenti. La scontro ha quindi assunto una connotazione marcatamente settaria che ovviamente non facilita gli accordi.

Dopo la guerra del Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due Paesi erano migliorati durante la presidenza di Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come il primo tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione i sauditi e il fronte sunnita che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabat Al Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione antri-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare l’alleanza sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houti sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e la fronte sunnita, sta perdendo questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel «cortile di casa», in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

L’umore nero di sauditi è diventato plumbeo con l’accordo del luglio scorso sul nucleare iraniano: Riad lo ha considerato un secondo tradimento degli Stati Uniti. Per questo lo scontro sulle quote petrolifere si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante.

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2 Commenti


  • ERNESTO

    DOVE LA FOTO DELL’ATTUALE PRESIDENTE DELL’USA ?


  • ERNESTO

    FACENDO COSI, TESTIMONIATE CHE OBAMA E’ IL MAGGIORDOMO DELLA CASA BIANCA

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