Nei due colpi che cercano il cuore della Turchia non piegata ai voleri autoritari d’un presidente c’è la cruda realtà presente da mesi dal Bosforo ai confini orientali. La nazione ponte che guarda l’Europa è diventata un campo di battaglia per volere di un leader ossessionato dal desiderio di potere, pronto a fagocitare avversari e amici trasformandoli tutti in bersagli. L’uomo che voleva rappresentare le fortune di un Paese giovane e dinamico è diventato una iattura per la sua stessa parte politica, oltre che per la popolazione. Dal popolo, che dice di amare e servire, trae i miliziani per una guerra civile strisciante. Uno degli attori è lo sparatore di ieri davanti al Tribunale di Istanbul, come lo erano i supporter mazzieri che assaltavano le sedi del partito Democratico del popolo alla vigilia delle elezioni di novembre, vinte grazie alla “chiamata muscolare” dell’uomo del destino. Tutto per amore della Turchia. Per il suo bene Erdoğan tre anni addietro aveva ordinato di gasare e urticare i ragazzi del Gezi park che ostacolavano i sogni affaristici della mega Istanbul, la sua vetrina di metrò sottomarine, raddoppiate canalizzazioni sul Mar Nero, nuovi aeroporti e luoghi di commercio per assecondare il clan del grande capitale suo sostenitore e finanziatore.
Storie note, ripetute nei loro risvolti anche tragici, riempiti col sangue di chi guardando ancora alla semplice meraviglia della luce del Bosforo, pensa che la vita sia anche quella di sedere sotto un albero e parlare. E’ la gente normale nei suoi desideri di giustizia e progresso che per il partito di regime restano epigrafi mute e contraddette da una quotidianità che non restituisce né onestà né rettitudine. Dündar, il giornalista bersaglio mancato dal turco che voleva farsi lupo e ieri ha tentato di emanare la sua esiziale sentenza, ha ricevuto dai giudici una condanna a quasi sei anni di galera per aver divulgato “segreti di stato”. Quei segreti erano missili e granate, catalogati come salvavita e diretti oltreconfine a incrementare la mattanza siriana. A questo si riduce la presunta democrazia anatolica, che ha sì un Parlamento dove i deputati, un gran numero eletti dal partito di maggioranza, si esibiscono in assalti a schiaffi e pugni contro i colleghi degli altri banchi. L’esasperazione del clima non è casuale. E’ preparata dall’uomo che vuole tutto e dall’estate ha scatenato l’esercito contro l’avanzata elettorale di una comunità, di un progetto politico capace di guardare oltre il vecchiume del kemalismo e il settarismo proposto da un Islam politico dimentico della moderazione.
Seguendo questa china la Turchia rischia l’implosione che sarà più grave degli attentati destabilizzanti che deflagrano, ormai periodicamente, nelle sue strade. Se la chiusura degli spazi di libertà continuerà a marciare sotto il silenzio dei tanti partner (commerciali, politici, geostrategici) il già disastrato orizzonte di crisi mediorientale diverrà ancora più aggrovigliato. I leader europei possono guardare a questo con la solita doppia ottica: della teoria, che parla di democrazia, diritti umani e via blaterando, e della pratica, che ha prodotto gli accordi sui rifugiati con tanto di budget di aiuti ad Ankara. Rimettere in gioco tutto diventa un rischio per il realismo politico di Bruxelles che ha deciso di usare Turchia e Grecia (e in terza battuta l’Italia) come contenitori della marea umana di mare e di terra. Oltre le guerre di fatto, quelle striscianti, incombe il conflitto dell’immigrazione che gli egoismi d’Europa scelgono di voler combattere per interposti Paesi. Alla Turchia spetta un ruolo di prima linea e in ogni fronte a chi guida gli assalti e rischia di suo è permesso di tutto. Erdoğan lo sa e alza il tiro. Se la tattica altrui sono opportunismo e cinismo, come ha evidenziato il proscenio della macelleria siriana, furfanti e bari possono continuare a fare i propri sporchi giochi. E i killer pure.
Enrico Campofreda
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