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Catalogna. Puigdemont nicchia, Cup in piazza per la rottura

Più di diecimila persone sono scese ieri in piazza a Barcellona per protestare contro “la persecuzione giudiziaria nei confronti dell’indipendentismo”. Una manifestazione organizzata dalla Cup – Candidature di Unità Popolare – che così ha voluto mostrare la propria solidarietà ad alcuni consiglieri e assessori inquisiti dall’Audiencia Nacional di Madrid per atti amministrativi giudicati non in linea con la legislazione spagnola. La sinistra indipendentista da più di un mese sta conducendo una capillare campagna politica dal titolo “Senza paura. Disobbediamo per l’indipendenza”, sostenendo la necessità di una rottura nei confronti dell’assetto legislativo spagnolo in campo sociale e nazionale. Alla mobilitazione, oltre alla maggioranza dei deputati regionali e dei dirigenti della Cup, hanno partecipato anche numerosi esponenti di altre forze della sinistra catalana, da Barcelona en Comù (la coalizione formata da Podem e da vari partiti locali di centro-sinistra) a Esquerra Republicana de Catalunya a coalizioni locali di natura trasversale. In piazza anche rappresentanti di varie organizzazioni associative indipendentiste e civiche ma nessun esponente del governo catalano che pure aveva giurato, all’atto della sua costituzione, di traghettare la regione verso l’indipendenza anche disobbedendo alle imposizioni del governo e delle istituzioni di Madrid. Di fatto una mozione solenne, votata da tutte le forze indipendentiste il 9 novembre, che avviava formalmente l’iter per la ‘disconnessione’ da Madrid e proclamava la necessità della disobbedienza nei confronti delle misure che lo Stato Spagnolo avrebbe intrapreso per bloccare il processo indipendentista, è rimasta in larga parte lettera morta.

La manifestazione di ieri pomeriggio, che si è svolta all’insegna dello slogan “Senza disobbedienza non c’è indipendenza” e della parola d’ordine “Per le libertà, andiamo avanti. Nessun tribunale ci farà tacere”, è partita alle 17 da Piazza dell’Università per concludersi davanti alla sede della Generalitat – il governo autonomo catalano – in Piazza Sant Jaume. Di fatto la controparte sembrava essere più l’attuale esecutivo regionale che quello di Madrid.

La mobilitazione è cresciuta ed ha coinvolto anche altre forze politiche più moderate dopo che nei giorni scorsi il Tribunale Costituzionale spagnolo ha ammesso i ricorsi del governo statale – che tra l’altro governa senza maggioranza parlamentare non essendo le Cortes riuscite a esprimere una nuova maggioranza dopo il voto del 20 dicembre – contro tre diverse leggi votate dal Parlament catalano tacciate di essere ‘incostituzionali’.

Si tratta di provvedimenti importanti e frutto di un’ampia convergenza delle forze politiche catalane autonomiste e indipendentiste: una legge che rende più difficili gli sfratti e che aumenta la tassazione sugli appartamenti lasciati vuoti dai proprietari, un provvedimento sull’eguaglianza effettiva tra uomini e donne, un ridisegno delle competenze degli enti locali catalani. Il Tribunale Costituzionale ha anche ammesso un ricorso di Madrid per un presunto conflitto di competenze con la Generalitat sul Piano Statale per l’Ambiente. In realtà il conflitto legislativo tra Stato e istituzioni catalane sta vivendo una vera e propria escalation: finora il premier ‘ad interim’ Rajoy ha tentato di bloccare ben 34 provvedimenti adottati dal governo di Barcellona.

Le decisioni del Tribunale Costituzionale sono arrivate dopo un relativo disgelo tra Governo centrale e Generalitat sancito dopo la riunione del 20 aprile tra Mariano Rajoy e Carles Puigdemont. Tant’è che il capo del governo catalano si è lamentato del fatto che Madrid non abbia accettato l’invito di Barcellona a non presentare ricorsi contro leggi di natura sociale. Ma, com’era già accaduto nei mesi scorsi, invece di prendere atto dell’impossibilità di un negoziato con le istituzioni centrali, l’esponente del partito della borghesia catalana e successore di Artur Mas ha affermato: “Abbiamo compreso il messaggio”. Una formula che a molti è suonata come una dichiarazione di obbedienza, oltre che d’impotenza. Puigdemont ha annunciato che chiederà una riunione con il presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, nel quale evidentemente cerca una sponda – finora indisponibile – contro la chiusura totale alla trattativa dimostrata da Rajoy.

Ma Puigdemont, che tenta di cavalcare il sottile crinale tra autonomismo e indipendenza senza andare veramente allo scontro con le istituzioni spagnole, non può del tutto disarmare. E così dopo la decisione del Tribunale Costituzionale ha chiamato a raccolta tutte le forze parlamentari e anche diverse associazioni e coalizioni sociali per ricevere un ampio mandato a rispondere alla prepotenza di Rajoy. Ed ha ottenuto un ok trasversale – Partito Popolare catalano compreso, visto che la misura in questione era stata approvata da tutti i gruppi – a far approvare dal Parlament un nuovo testo della legge che mira combattere la povertà energetica e l’emergenza casa che incorpori le parti del provvedimento precedente «sospese» dal TC. Ma il premier spagnolo Rajoy ha già annunciato che la impugnerà di nuovo, anche se gli uffici legali della Generalitat hanno assicurato che il testo legislativo è conforme ai margini di competenza che la Costituzione e lo Statuto di Autonomia assegnano alle istituzioni catalane. Secondo le sinistre e le coalizioni sociali, quella di Puigdemont sarebbe una inutile e inefficace melina, più utile ad accreditare il personaggio come “campione delle rivendicazioni sociali ed indipendentiste catalane” che a risolvere i problemi concreti di centinaia di migliaia di catalani alle prese con il caro bolletta, i mutui o gli sfratti. Tant’è che la PAH – la Piattaforma delle vittime delle ipoteche – e alcuni sindaci hanno accusato Puigdemont di immobilismo, visto che la Generalitat non ha ancora firmato gli accordi con le imprese energetiche che permetterebbero di bloccare la sospensione delle forniture di elettricità e gas alle numerose famiglie in difficoltà.

Nel frattempo la sindaca del capoluogo catalano e leader di Barcelona en Comù, Ada Colau, è riuscita nei giorni scorsi a incassare l’approvazione del bilancio con un’ampia maggioranza. A favore hanno votato non solo gli 11 consiglieri della sua coalizione di centrosinistra, ma anche i 5 di ERC e i 4 del Partito Socialista Catalano. In maniera contraria si sono invece espressi i gruppi di destra e centro-destra – Convergenza Democratica, Partito Popolare e Ciutadans – mentre i tre consiglieri della sinistra indipendentista si sono astenuti dopo aver strappato alla giunta un aumento della spesa sociale di alcuni milioni di euro rispetto al provvedimento inizialmente presentato da Ada Colau. La Cup ha ottenuto l’impegno formale a municipalizzare i servizi pubblici di base privatizzati dalla precedente giunta guidata da Convergenza Democratica, l’elaborazione di un elenco di appartamenti vuoti sui quali intervenire, un maggior impegno nel contrasto alla “femminizzazione della povertà” e a favore dell’integrazione dei migranti senza documenti. “Briciole”, ha ammesso la stessa Cup la quale ha denunciato che il nuovo bilancio comunale è in forte continuità con quello del governo precedente di centro-destra, senza quei sostanziali cambiamenti che pure BEC e Ada Colau avevano annunciato.

La Cup non è invece riuscita a ottenere dall’amministrazione lo scioglimento della brigata antisommossa della Polizia Municipale, protagonista negli ultimi anni di numerosi episodi repressivi. La misura, ha promesso l’amministrazione, verrà adottata forse a maggio.
Esquerra ha invece ottenuto il finanziamento per la linea 9 della metropolitana e i socialisti altri investimenti. Una convergenza, quella tra BEC (Podemos più centro-sinistra catalano), repubblicani e socialisti che sembra prefigurare un allargamento del governo cittadino a queste due ultime forze, che Ada Colau ha esplicitamente invitato ad entrare nella maggioranza che la sostiene.

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