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Il Consiglio d’Europa attende Nadezhda Savchenko a braccia aperte

Il timbro neonazista del regime golpista ucraino non deve sbiadire: giorno dopo giorno ci si incarica di aggiungere inchiostro. Così, la prospettiva Mosca di Kiev cambia nome e diventa via Stepan Bandera; la prospettiva Nikolaj Vatutin (uno dei più intraprendenti generali sovietici, assassinato nel 1944 dai nazionalisti ucraini) sarà prospettiva Roman Šukevič. Insieme ai due massimi esponenti del nazismo ucraino, altri “eroi” del tridente nazionale daranno il nome alle strade della capitale, a cominciare dagli ufficiali bianchi della guerra civile, come Almazov, Emeljanovič-Pavlenko, Zmienko. Altro inchiostro lo ha aggiunto, suo malgrado, l’avvocato Vladimir Olentsevič, che i golpisti continuano a tenere dietro le sbarre a Kiev perché, a suo tempo, era riuscito a far annullare in giudizio l’attribuzione a Bandera e Šukevič del titolo di “Eroi dell’Ucraina”.

A rinfrescare il marchio fuori dei confini nazionali sarà presto la “Speranza d’Ucraina”-Savchenko (Nadezhda significa speranza) che, inviata da Petro Poroshenko in missione di “marketing extraterritoriale” nelle capitali europee, già in giugno prenderà parte alla sessione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in qualità di deputato della Rada ucraina. D’altronde, che la puntatrice del battaglione “Ajdar”, condannata in Russia a 22 anni di colonia perché riconosciuta corresponsabile di omicidio e graziata il 25 maggio da Vladimir Putin, porti in giro per il mondo i simboli del neonazismo ucraino non turba assolutamente il Consiglio d’Europa, il cui segretario generale, il norvegese Thorbjørn Jagland, il 26 maggio ha ribadito la solidarietà dell’organismo “con l’Ucraina e il suo popolo, nel momento in cui il paese sta adottando misure per attuare un sistema giudiziario pienamente indipendente, efficace e professionale”. Parole queste che devono aver sforbiciato l’udito delle centinaia di comunisti ucraini, delle avanguardie antifasciste di Kharkov, di semplici oppositori del regime golpista, scomodi al governo per non riuscire a pagare le tariffe municipali che, quando hanno la fortuna di non cadere sotto le bastonature o le pistolettate dei battaglioni neonazisti, affollano le prigioni del paese. Ancor meno la cosa sembra angustiare il Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE), Pedro Agramunt, che il 25 maggio ha definito “un’ottima notizia il rilascio di Nadiya Savchenko, membro dell’Assemblea parlamentare”; “mi rallegro all’idea di accoglierla presto a Strasburgo – forse anche per la prossima sessione di giugno, se le sue condizioni di salute lo consentono”, ha detto Agramunt, scompigliato per le immagini di Speranza bene in carne, dopo i mesi di “scioperi della fame”.

Tutt’altra reazione ha suscitato nel Donbass la grazia a quella che senza giri di parole viene definita “l’aviatrice-sadica, nazista convinta e russofoba” che, oltre alla corresponsabilità nell’assassinio dei giornalisti russi Igor Korneljuk e Anton Vološin, è considerata autrice di torture nei confronti di civili del Donbass e di miliziani fatti prigionieri. I “più teneri” commenti in rete nei suoi confronti, chiedono semplicemente di ignorarla, per evitare di renderle “troppo onore. Lasciamo che sia l’APCE a sbaciucchiarla e succhiarla”; oppure “è solo per noi che Savchenko è un’assassina, un mostro, una fascista, ma per l’APCE è una di loro”. Ricordando le parole pronunciate subito dopo la liberazione, secondo cui intende tornare nel Donbass “a uccidere i russi”, c’è chi dice che “si è dato carta bianca al genocidio”. EADaily ha condotto un breve sondaggio tra gli abitanti delle Repubbliche popolari. Secondo l’agenzia Anna-News, l’atteggiamento generale è molto negativo: “La liberazione di un’assassina patologica non può essere giustificata da nessun motivo “umanitario”: quante persone potrà ancora uccidere impunemente?”. Ancora: “tutta questa cagnara su una donna anormale, fatta per di più Eroe d’Ucraina: è disgustoso. Tale il paese, tali i suoi eroi”. C’è chi adduce “motivi di geopolitica”, ma in ogni caso si dice rammaricato: “i politici ucraini provocano o risa o sdegno. Nadja non ha tanta scelta: o dire ciò che le fanno dire, o tacere, a comando. La terza variante ha due valenze: il carcere o la morte”. Qualcuno vede il lato positivo della faccenda, nella liberazione dalle carceri ucraine dei russi Erofeev e Aleksandrov e nel fatto che ora la “patata bollente Savchenko” è passata nelle mani di Poroshenko e non è possibile liberarsene semplicemente uccidendola, come hanno fatto col giornalista Buzinà o col deputato Kalashnikov. Tra gli abitanti di Donetsk c’è poi addirittura chi dice che “presto gli slogan anti-Putin saranno più diffusi di quelli anti-Poroshenko. Parlando seriamente, credo che ora se ne freghino di noi”. Tra le milizie, c’è chi pensa che la “liberazione di Savchenko sia una sconfitta e un segno di debolezza, che porterà presto frutti negativi. Inoltre, come possiamo spiegare al popolo che una criminale, condannata, sia stata non semplicemente scambiata, ma addirittura graziata dal presidente del paese i cui civili lei ha ucciso?”

A fronte di ciò, sentimenti di delusione per la condotta generale delle leadership di DNR e LNR serpeggiano in Russia tra buona parte dei comunisti non legati al PC ufficiale. Uno degli ultimi esempi è dato dal partito comunista operaio russo (PCOR) che, in una dichiarazione del 18 maggio scorso, ricordava come il popolo del Donbass nel 2014 fosse “insorto contro l’attacco del fascismo ucraino, sostenuto tuttora dall’imperialismo USA e dai suoi satelliti della UE” e avesse proclamato “l’indipendenza dal potere banderista di Kiev, formando le Repubbliche popolari e armandosi per difendere la propria terra”. E’ chiaro che “tale risultato non si sarebbe potuto raggiungere senza l’aiuto solidale del popolo e dello stato russo. Tuttavia, il cosiddetto cessate il fuoco dopo gli accordi di Minsk solleva più preoccupazione che ottimismo; le forze armate ucraine bombardano regolarmente Donetsk, Gorlovka, Jasinovata e molte altre città di DNR e LNR. Non minore preoccupazione sollevano alcuni atti delle leadership delle Repubbliche popolari: hanno rinunciato all’idea iniziale di unirsi nella Novorossija, liquidano le componenti di democrazia popolare, lasciano irrisolti gli omicidi di Mozgovoj e di altri comandanti, escludono dagli organi amministrativi operai, minatori e miliziani e al loro posto compaiono persone che, nei momenti più critici della guerra, si erano rifugiate in Ucraina; non volevano ammettere i comunisti alle elezioni e poi, quando comunque tre comunisti erano stati eletti al parlamento della DNR nelle liste di “Repubblica di Donetsk” (uno di essi è poi morto al fronte), si sono dichiarati decaduti gli altri due, col pretesto della “perdita di fiducia”: avevano perso la fiducia della borghesia? L’11 maggio, nel secondo anniversario della proclamazione della DNR, si era tentato di impedire ai comunisti di partecipare alle manifestazioni con le bandiere rosse. Il perché questi fatti non siano notati dall’Osce, è chiaro; ma il perché vengano taciuti dai poteri e dai media russi, è una questione che riguarda il popolo russo”. Se da un lato, col pretesto della normalizzazione della situazione, Kiev “spinta da determinate forze dell’Occidente, concentra artiglierie, mezzi pesanti e uomini al confine per l’attacco”, d’altro canto l’eliminazione dal servizio effettivo delle milizie più esperte, alimenta il sospetto che i tentativi dei lavoratori di levarsi in armi per difendere LNR e DNR verranno bloccati all’interno stesso del Donbass. Ma al ritorno del Donbass sotto Kiev farà seguito un altro bagno di sangue nello stile banderista, sull’esempio di Odessa ma su scala molto maggiore”. La dichiarazione del PCOR fa dunque appello a “tutte le forze progressive russe perché pretendano dal governo e dal Presidente che si adottino le misure necessarie a impedire che si avverino tali scenari: aiuto umanitario, economico e militare al Donbass; informazione obiettiva sul proseguimento dell’aggressione ucraina; offerta della cittadinanza russa a quanti, tra i miliziani e i loro familiari, lo desiderino”.

 

Fabrizio Poggi

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