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Iraq: tra confessionalismo e jihadismo

Quando nel 2003 il presidente degli Stati Uniti George W Bush decise di attaccare ed invadere l’Iraq, in poco tempo il regime di Saddam Hussein venne sconfitto dalla coalizione internazionale, ma con esso fu subito distrutto tutto l’apparato militare, burocratico e di polizia dello stato iracheno.

Nei successivi nove anni gli USA tentarono di ricostruire un apparato burocratico e di pubblica sicurezza confidando però nella sola classe politica moderata sciita che portò all’elezione del primo ministro Iyad Allawi. Il loro primo obiettivo fu, invece, una continua delegittimazione degli esponenti sunniti iracheni ed un loro progressivo allontanamento dalla sfera politica nazionale: abbastanza eclatante fu il caso del vice presidente sunnita Tareq al Hashemi accusato di terrorismo nel 2011 e fuggito a Doha. L’accusa di terrorismo era legata, invece, alla politica settaria del nuovo primo ministro Nouri Al Maliki nei confronti della comunità sunnita.

La lotta tra le due confessioni, sunniti e sciiti, ha radici lontane. Da quando, infatti, nel 1979 il presidente Saddam Hussein prese il potere e incentrò il proprio apparato politico Ba’athista sulle tribù sunnite del nord, a discapito, anche attraverso persecuzioni e massacri, della comunità sciita del meridione o di quella curda del nord-est.

In questi lunghi anni si sono succedute diverse elezioni e l’impostazione dell’attuale apparato governativo è stata, purtroppo, quella sulla suddivisione confessionale, portando quindi il paese a tutte le problematiche legate a tale scelta: dall’annullamento di una reale impronta politica nazionale al problema del clientelismo confessionale per attribuzione di cariche e appalti. In base a questa suddivisione il presidente della repubblica è un curdo, il primo ministro uno sciita ed il presidente del parlamento un sunnita oltre alle diverse quote comunitarie dei diversi rappresentanti in parlamento. Le prime elezioni del gennaio 2005 furono boicottate da parte dei sunniti che protestavano contro il processo di de-ba’athizzazione in tutti gli apparati statali. Le seguenti elezioni del dicembre 2005, successive al varo della nuova costituzione, portarono all’ingresso politico della comunità sunnita anche se con moltissime frizioni causate dall’atteggiamento discriminatorio del primo ministro Nouri Al Maliki.

Le elezioni del 2010 e 2014 non si differenziano da quelle precedenti sia per quanto riguarda gli esiti dei rappresentanti – Al Maliki viene rieletto in entrambe i casi – sia per quanto riguarda la campagna di denigrazione e annichilimento degli esponenti della comunità sunnita. Dopo il ritiro statunitense, nel 2011, la recrudescenza degli attentati terroristici e gli scontri settari hanno provocato una paralisi istituzionale aggravata dallo scontro politico tra il primo ministro sciita Al Maliki ed il presidente del parlamento: il sunnita Osama al Nujaifi, aggravato ancora di più dall’assenza del presidente della repubblica pro-tempore  il curdo Jalal Talabani, colpito nel 2012 da un grave ictus. Questo ha consentito alle varie formazioni terroristiche attive in Iraq di approfittare del caos creatosi e di rafforzare le proprie posizioni. Proprio nel 2012 l’Iraq subisce le ripercussioni della guerra civile siriana. Nel 2013, infatti, a causa dell’ingente numero di guerriglieri jihadisti sia nella parte orientale siriana che in quella occidentale irachena, Abu Bakr Al Baghdadi, leader dello Stato Islamico in Iraq, proclama la creazione di un califfato trans-nazionale con il nuovo nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto con l’acronimo inglese ISIS o ISIL o con l’acronimo arabo di Daesh. All’inizio del 2014 il gruppo jihadista ottiene diverse vittorie in territorio iracheno fino a conquistare la città di Fallujah e la provincia di Anbar, mentre nell’estate dello stesso anno arriva a impossessarsi del nord-est espugnando Mosul. L’appoggio di ex militari sunniti del regime ba’athista, ormai estromessi dal potere politico sciita di Baghdad e con una preparazione militare ed una conoscenza del territorio, ha inevitabilmente influito nella rapida ascesa dell’ISIS in tutto il territorio settentrionale iracheno.

Dopo vari tentativi per definire nuovi equilibri di potere, legittimati dai risultati delle elezioni politiche del 30 aprile scorso, è stato finalmente trovato un accordo per l’attribuzione delle principali cariche istituzionali: Fuad Massoum (curdo) è stato eletto Presidente della Repubblica, Salim al-Jabouri (sunnita) è andato a presiedere il Parlamento e Haider Al-Abadi (sciita) è stato nominato Primo Ministro.

L’approccio politico del leader sciita sembra molto più conciliante nei confronti della comunità sunnita, a differenza del suo predecessore Al-Maliki allontanato dall’incarico di governo proprio per questo motivo. Nelle sue intenzioni la prima mossa politica di Al Abadi sarebbe stata quella di proporre un governo di unità nazionale che si allontanasse dai legami confessionali e clientelari precedenti. Questo passaggio ad oggi non è ancora avvenuto, ed è per questo motivo che i sostenitori del movimento sciita guidato da Moqtada al Sadr, hanno protestato vivamente fino ad occupare la zona verde ed il parlamento iracheno. I sostenitori sadristi lamentano, infatti, l’immobilità politica della classe dirigente irachena che vive solamente di corruzione e clientelismo. In quest’ottica si devono analizzare le diverse manifestazioni di questi tre venerdì consecutivi. In risposta alle proteste emerse in questi ultimi mesi, il premier Al Abadi ha promesso che “l’impegno del governo per nuove riforme radicali ci sarà subito dopo la presa di Fallujah e della totalità della provincia di Anbar, vitale per lo stato iracheno”.

Da un punto di vista militare, invece, la scelta di Al Abadi di ricostruire un apparato militare che coinvolga tutte le forze politiche e tutte le confessioni del paese sembra essere stata vincente. Le rapide vittorie dell’ISIS in territorio iracheno erano, infatti, anche legate alla progressiva disgregazione dell’esercito a causa anche delle continue frizioni tra sunniti e sciiti a livello politico: le sconfitte di Tikrit e Mosul, infatti, con i militari iracheni che scappavano e lasciavano armi ed equipaggiamenti ai miliziani jihadisti, avevano reso necessaria una riforma anche delle forze militari interne.

Le Forze di Mobilitazione Popolare o Forze Popolari (FP o in arabo Al-Hashd as-Shaabi) sono state formate nel giugno 2014, dopo la richiesta dell’Ayatollah Ali Al Sistani di “unire tutti gli sforzi per la difesa del territorio iracheno e della capitale Baghdad”. Sono costituite sia dai vecchi apparati militari sia dalle differenti milizie confessionali sotto la supervisione del ministero dell’interno iracheno e del primo ministro Al Abadi.  Il carattere multiconfessionale delle FP è sicuramente il punto di forza che ha cambiato le sorti della lotta contro l’ISIS: quello che le popolazioni sunnite del nord poco tolleravano era, infatti, la netta predominanza di comandanti sciiti nelle loro aree rurali. All’interno delle milizie ci sono tutte le formazioni militari di quasi tutte le confessioni del paese: gli sciiti, i sunniti, i cristiani, gli yazidi e il coordinamento delle forze curde.

Dal 2015 ad oggi sono state diverse le vittorie ottenute dalle FP con la riconquista di città fondamentali come Ramadi fino alla battaglia di questi giorni che riguarda un altro centro di fondamentale importanza: Fallujah. Le vittorie di questi ultimi mesi sono legate soprattutto al sostegno da parte delle tribù locali che riconoscono parte delle FP, costituite da sunniti, realmente forze di liberazione dall’oppressione jihadista di Daesh nella quale erano cadute.

Bisogna inoltre aggiungere che, come avviene in Siria, le difficoltà di contrapposizione alle milizie jihadiste sono anche legate alle ingerenze da parte di paesi come l’Arabia Saudita e la Turchia che tentano di preservare i propri interessi geo-politici: i sauditi per contrastare l’asse sciita rappresentato da Iran, Iraq, Libano e Yemen, i turchi per ostacolare l’ascesa politica e militare dei peshmerga curdi. Sono numerose, in particolare da fonti locali e agenzie stampa russe e iraniane, le accuse nei confronti di turchi e sauditi che riforniscono di armi le milizie jihadiste di Daesh e favoriscono il loro passaggio o spostamento dai territori limitrofi. Da un altro punto di vista sono altrettanto frequenti e importanti, gli aiuti ed il sostegno iraniano alle milizie irachene. Proprio in questi giorni, ad esempio, è stato visto in territorio iracheno il generale Sulemaini, comandante delle celebri brigate iraniane al Quds – forze di intervento e di preparazione alle truppe che si contrappongono al jihadismo dall’Iraq alla Siria- con il chiaro scopo di coordinare l’attacco finale alla città di Fallujah.

Se, quindi, da un punto di vista militare il governo Al Abadi ha ricostruito il proprio apparato di difesa per contrapporsi all’ISIS, non si può dire la stessa cosa per quanto riguarda la sfera politica ed amministrativa. Le proteste e gli scontri di questi giorni, infatti, potrebbero sfociare in nuove lotte e conflitti riportando il paese nel baratro dello scontro settario, aggravando l’instabile situazione interna in cui quotidianamente la capitale irachena è vittima di attentati dinamitardi di matrice jihadista che fanno centinaia di morti.

 

Stefano Mauro

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