Il voto popolare non deve contare niente. Ormai lo li dice così apertamente che i padri della democrazia parlamentare boghese dovrebbero rivoltarsi nelle tombe. Più passano i giorni, più la materia diventa inestricabile sul piano tecnico ma chiarissima su quello politico: “il voto? non ha deciso nulla”.
Il quotidiano progressista britanno The Indipendent è andato a sentire un po’ di avvocati costituzionali, ovviamente favorevoli al remain, per farsi spiegare come si potrebbe invalidare – di fatto, non certo di diritto – il referendum sulla Brexit.
Il filo nero passa ovviamente sulla distinzione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Perché il Parlamento, in questa chiave, è contro il popolo. Abbiamo sottolineato quelle che a nostro avviso appaione le affermazioni più agghiaccianti.
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di Ian Johnston
Il Parlamento deve ancora votare su un disegno di legge per consentire al Regno Unito di lasciare l’Unione Europea, spiegano gli avvocati più qualificati.
Geoffrey Robertson, fondatore della Doughty Street Chambers, ha detto che l’atto che ha istituito il referendum non ha detto “niente” circa il suo impatto, il che significa che è “puramente consultivo“.
Un nuovo disegno di legge per abrogare quella del 1972 che stabiliva l’adesione alla Comunità europea deve ora essere approvato dal parlamento, ha detto, aggiungendo che i parlamentari potrebbe non essere in grado di votare fino a novembre, quando gli effetti economici della Brexit saranno più chiare.
“Sotto la nostra Costituzione – ha detto a The Independent parlando in veste di avvocato costituzionale – la sovranità riposa in ciò che noi chiamiamo la regina in Parlamento“.
“E diritto dei soli parlamentari di fare o annullare le leggi, ed anche di bloccarle. Quindi non c’è nessuna efficacia di sorta nel risultato del referendum. E’ compito interamente dei parlamentari quello di decidere.
“L’atto del 1972 sulla comunità… è ancora buona legge e rimane così fino all’abrogazione. Nel mese di novembre, il primo ministro [Boris] Johnson dovrà presentare in Parlamento il disegno di legge per abrogare quella sull’adesione alla comunità”, ha detto Robertson.
“Deputati hanno il diritto di votare contro e sono tenuti a votare contro, se pensano che sia nel miglior interesse della Gran Bretagna [votare in questo modo]. E non è ancora finita.
“I parlamentari dovranno fare il loro dovere di votare secondo coscienza e votare per ciò che è meglio per la Gran Bretagna. E ‘una questione che riguarda la loro coscienza. Hanno avuto il andato di comportarsi con coraggio e coscienza.
“La democrazia in Gran Bretagna non significa la regola della maggioranza. Non è la tirannia della maggioranza o la tirannia della folla … sono i rappresentanti del popolo, non le persone stesse, a votare per loro.”
Robertson ha detto che ci sono state “un sacco di dichiarazioni stupide” che suggerisce la Gran Bretagna potrebbe semplicemente inviare una nota alla UE per innescare “Articolo 50” del Trattato di Lisbona, che prevede il processo in base al quale gli stati possono lasciare la comunità. L’articolo dice che uno stato può lasciare solo in conformità con le “proprie norme costituzionali“.
“La nostra esigenza costituzionale fondamentale è che la decisione deve essere presa dal parlamento. Ciò richiederà un disegno di legge“, ha detto.
“Nel mese di novembre, la situazione potrebbe essere completamente cambiata. Secondo i sondaggi, un milione di voti per l’uscita sembrano aver cambiato idea, potrebbero essere cinque milioni dal mese di novembre.”
In una lettera al Times, un altro importante avvocato, Charles Flint, di Blackstone Chambers, ha sottolineato anche che la legge britannica richiede che i parlamentari votino la Brexit prima che che si possa realizzare.
“Sotto la legge per l’Unione Europea del 2011 … una modifica al trattato sull’Unione europea, concordata tra gli Stati membri, avrebbe richiesto l’approvazione sia col referendum sia con una legge del Parlamento”, ha detto.
Il Trattato di Lisbona è stato il primo accordo a disporre le regole su come gli Stati membri potrebbero lasciare l’UE.
L’articolo 50 del trattato afferma:
1. Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali.
2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica al Consiglio europeo della sua intenzione. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude un accordo con lo Stato, a definire le modalità per il suo ritiro, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218 (3), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo.
3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di ritiro o, in mancanza, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, a meno che il Consiglio europeo, d’intesa con gli Stati Stato interessato, decide all’unanimità di prorogare tale termine.
4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo o del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa alle discussioni del Consiglio europeo o il Consiglio o nelle decisioni che lo riguardano.
La maggioranza qualificata è definita conformemente all’articolo 238 (3) (b), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49.
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