E’ salito a 43 il numero dei morti, di cui 19 stranieri, provocati nell’attacco di martedì notte contro il principale scalo internazionale di Istanbul, uno dei luoghi più controllati e ‘sicuri’ del paese preso di mira dallo Stato Islamico. Al momento manca ancora una rivendicazione ma nessuno, all’estero e ad Ankara, ha dubbi sulla matrice della strage.
Venti giorni prima che sette persone – tre delle quali uccise, tre in fuga e una arrestata – mettessero a segno uno degli attacchi più gravi compiuti negli ultimi anni in Turchia sembra che l’intelligence avesse avvisato del serio rischio di un attentato di Daesh contro l’aeroporto di Istanbul intitolato ad Ataturk, almeno secondo quanto rivelato dalla giornalista Hande Firat, capo della redazione di Ankara di Dogan Tv. Secondo Firat tre settimane fa gli 007 del MIT avevano inviato una lettera in merito ai responsabili politico-militari e ai governatori avvertendoli dei concreti rischi di un attacco ad alcuni obiettivi, tra i quali lo scalo internazionale poi effettivamente preso di mira martedì sera. Una notizia che non può non inquietare una popolazione turca che finora ha sperato di rimanere al margine di un’ondata di violenza alla cui esplosione il governo di Ankara ha contribuito non poco.
Insomma, o il regime ha lasciato fare – improbabile, in questo caso, visto che la strage lo indebolisce oggettivamente – o le forze di sicurezza non sono in grado di proteggere la popolazione e il paese dalle conseguenze del terrore sparso a piene mani per anni in Siria e nel resto del Medio Oriente, ora dilagato anche all’interno dei confini della Turchia. Negli ultimi 5 anni, si calcola, in Turchia sono morte 654 persone in stragi imputabili a gruppi islamisti e qualcosa nel rapporto tra la popolazione e il regime di Erdogan comincia ad incrinarsi.
Il primo ministro Yildirim, in visita ai feriti in un ospedale della metropoli sul Bosforo, è stato apertamente contestato da alcune delle vittime che lo hanno apostrofato al grido di «Avete trasformato il paese rendendolo come la Siria!».
Sono ancora una volta i civili e i turisti a subire le conseguenze dell’irresponsabile strategia del regime islamo-nazionalista. Dopo anni di sostegno da parte dell’Akp e dei suoi addentellati lo Stato Islamico si è trasformato da strumento di destabilizzazione del governo siriano al servizio degli interessi espansionistici di Erdogan, in nemico interno potente e crudele.
In Turchia esistono decine di cellule dell’organizzazione jihadista, che può contare su una consistente simpatia popolare e su migliaia di sostenitori. Dopo alcuni attacchi che hanno oggettivamente favorito il regime – quelli contro il Partito Democratico dei Popoli e altre organizzazioni curde e contro le varie sigle della sinistra radicale turca – il rapporto privilegiato tra Akp e Daesh sembra essersi fortemente incrinato e ora, paradossalmente, lo Stato Islamico si è trasformato in un nemico infido e pericoloso per il regime turco.
Soprattutto dopo che le forze armate della Turchia, nel tentativo di recuperare una certa collaborazione con gli Stati Uniti, hanno cominciato a compiere arresti nei confronti della rete di sostegno a Daesh e a bombardarne le postazioni al confine con la Siria, nella zona di Azaz. La cosiddetta ‘autostrada della Jihad’ che dal 2012 ha permesso ai jihadisti di passare indisturbati nei due sensi la frontiera tra Siria e Turchia per rifornirsi di armi, addestrare e curare i propri miliziani, vendere il petrolio e le opere d’arte trafugate e rifornirsi di armi, si è fatta sempre più difficile da percorrere, e non solo a causa della diminuzione del sostegno da parte del regime dell’Akp ma anche per le continue vittorie militari della coalizione russo-sciita e dei curdi in Siria.
L’intervento russo in Siria e il rafforzamento dei curdi nel paese confinante su cui il nazionalismo turco – prima nella versione laicista ed ora in quella islamista –accampa da sempre pretese territoriali ed egemoniche, ha sconvolto i piani di Erdogan già alle prese con il sostanziale fallimento della strategia neo-ottomana in Medio Oriente, Caucaso e Nord Africa.
Il durissimo colpo al cuore dell’industria turistica già in caduta libera rischia ora di mettere in ginocchio un paese sempre più isolato a livello internazionale, rischio che il regime rischia di controbilanciare ricucendo con Israele e cercando di ritrovare un rapporto decente con una Russia (Putin ha rimosso con un decreto presidenziale, per ora solo formalmente, le sanzioni comminate ad Ankara dopo l’abbattimento del jet di Mosca in Siria) che comunque rimane un competitore nello scenario Medio Orientale.
Un improvviso incrudimento della crisi economica che già interessa il paese – i flussi turistici portavano decine di miliardi di valuta pregiata nelle casse del paese e alimentavano un enorme indotto in buona parte fedele al ‘sultano’ – rischia di rompere l’incantesimo tra regime e ‘Turchia profonda’ incrinando i rapporti tra Erdogan e l’ampia base sociale che finora ne ha sostenuto o quantomeno tollerato le spericolate evoluzioni in politica estera, oltre all’accentuazione del carattere autoritario dello stato, in cambio di una estensione del benessere almeno alle classi urbane rimpinguate da una massiccia emigrazione di milioni di abitanti dell’Anatolia verso le metropoli.
Ora non solo in Siria le cose non vanno affatto come Erdogan sperava a causa dell’intervento russo, ma i rapporti con Stati Uniti e Unione Europea si sono ulteriormente incrinati, con praticamente tutte le cancellerie occidentali che sostengono – strumentalmente, ma poco importa – le milizie curde in Siria, con il rischio che il contagio si estenda entro i confini di una Turchia che appare sempre più violenta quanto più le propria fondamenta vengono scosse. Come il regime risponderà alla nuova situazione è difficile dirlo. Maggiore repressione nei confronti di tutti i ‘nemici dello Stato’ e ricucitura con alcuni alleati o competitori come Israele e Russia sembrano le mosse considerate attualmente prioritarie dal regime islamo-nazionalista, ma potrebbero non bastare.
L’offensiva dello Stato Islamico contro le città turche potrebbe diventare più massiccia e causare l’esplosione del regime, già alle prese con una insorgenza curda che da molti mesi infligge, nonostante la repressione indiscriminata e selvaggia, duri colpi e dure perdite alla polizia e all’esercito di Ankara.
Le potenze occidentali potrebbero approfittare dell’improvvisa – e auspicata – debolezza della Turchia per recuperarla all’interno della propria strategia in Medio Oriente, mettendo fine ai sogni da potenza regionale della classe dirigente erdoganiana già ampiamente frustrati dai continui rovesci degli ultimi anni. Ma Ue e Usa potrebbero anche abbandonare a se stessa la Turchia che affonda, per poi tentare di recuperarne i cocci. Un gioco al massacro da cui nessuno uscirà vincitore.
Marco Santopadre
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Il prezzo della politica spericolata di Erdogan
L’attentato di Istanbul sarà probabilmente seguito da altri e ci riguarda direttamente per evidenti questioni di sicurezza e per il nostro futuro geopolitico. Niente di quello che avviene nella polveriera turca succede per caso. Chi semina grandine raccoglie tempesta, è il caso di ricordarselo adesso che al popolo turco si indirizza il sostegno dell’Europa dettato da una doverosa solidarietà contro il terrorismo ma anche dall’accordo con Ankara sui migranti: è stato il presidente Erdogan insieme all’ex primo ministro Davutoglu ad aprire «l’autostrada della Jihad» che ha consentito a migliaia di miliziani di andare a combattere in Siria per abbattere Bashar Assad.
L’Occidente e l’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton lo sapevano perfettamente perché nel 2011 si riteneva che Assad sarebbe caduto in pochi mesi, come gli altri raìs arabi. Un errore di calcolo paragonabile a quello che fece Bush jr. scoperchiando il vaso di Pandora con l’attacco all’Iraq nel 2003. Non dimentichiamo che l’ambasciatore americano in Siria e quello francese il 6 e 7 luglio 2011 passeggiarono in mezzo ai ribelli di Hama: era il segnale di via libera alla guerra con ogni mezzo. Un “pro memoria” volatilizzato dalle esitazioni di Obama nel 2013 a bombardare Assad e che oggi spiega la ribellione di un manipolo di diplomatici americani.
Quella contro Damasco non era soltanto una legittima rivolta contro un regime brutale ma una guerra per procura contro l’Iran sciita, strettamente legato ad Assad come agli Hezbollah libanesi e al governo di Baghdad. È questo l’asse sciita. La Siria del padre di Bashar, Hafez, era stato l’unico Paese arabo a schierarsi con Teheran quando fu attaccato da Saddam Hussein nel 1980, un conflitto durato otto anni con un milione di morti e che aveva visto le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, versare 60 miliardi di dollari all’Iraq a guida sunnita: un investimento colossale svanito quando il Paese è andato in mano alla maggioranza sciita. Il fronte sunnita ha cercato la rivincita nella guerra contro Damasco, diventata ancora più aspra quando l’Iran ha firmato nel luglio 2015 l’accordo sul nucleare con il Cinque più Uno. L’intervento della Russia il 30 settembre scorso ha salvato Assad ma ha anche allargato le dimensioni di conflitto che oggi è al centro della maggiore spartizione in zone di influenza dai tempi di Yalta e che deve tenere conto non solo del Medio Oriente ma anche dell’Est Europa e dell’Ucraina.
La Siria è una sorta di Jugoslavia araba – come non fosse bastata la disgregazione di quella Tito – che per la sua composizione settaria ed etnica sarà quasi impossibile pacificare senza un accordo tra Stati Uniti, Russia e potenze regionali. Tenendo presente che l’irruzione del Califfato, nato da una costola di Al Qaeda, non solo ha reso il conflitto una carneficina ma lo ha esteso con il terrorismo dal Medio Oriente all’Europa.
Se è vero che l’Isis arretra, è evidente che in Iraq e Siria si combattono due guerre diverse. In Iraq contro l’Isis è schierata una coalizione a guida americana che appoggia le forze governative irachene sostenute da milizie curde e sciite. In Siria a condurre la guerra ai jihadisti (e all’opposizione) è Assad con l’Iran e la Russia: qui una vittoria contro l’Isis è una sconfitta non solo per Erdogan ma anche per l’Occidente.
Agli errori di calcolo sulla sorte di Assad, Erdogan ne ha aggiunti altri fatali. Il presidente turco pensava di mettere le mani sugli ex possedimenti ottomani come Mosul e Aleppo, per questo ha sostenuto il Califfato, al punto che l’intelligence occidentale ritiene che recentemente abbia aiutato l’Isis a spostare 6mila uomini sul fronte siriano. Non solo: ha usato i jihadisti contro i curdi. Naufragato l’accordo di pace con Ocalan, Erdogan ha lanciato un’offensiva contro il Pkk e ostacolato in ogni l’avanzata dei curdi siriani contro l’Isis, ora aiutati anche dagli americani. E adesso la Turchia si trova davanti un incubo strategico: che i curdi, prima o poi, costituiscano uno stato ai suoi confini.
Ecco perché Erdogan è stato costretto a fare la pace con Israele e riaprire i canali diplomatici con Putin. Con la fine dell’Isis si avvicina l’ora della verità: la guerra che lui voleva portare contro Assad è rientrata in casa sua e cerca una via di uscita. Voleva diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, si è trasformato nel “padrino” di jihadisti che ora lo ritengono un traditore. I frutti avvelenati questa politica spericolata non riguardano solo la Turchia: il bastione atlantico sul fianco sud del Mediterraneo vacilla mentre l’Europa affronta la dura prova della Brexit. Turandoci il naso forse dovremo aiutare persino l’inaffidabile “alleato” Erdogan.
Alberto Negri – Il Sole 24 Ore del 30 giugno 2016
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