Non sono ancora riprese a Erevan le manifestazioni di strada a sostegno del gruppo armato asserragliato da due settimane nel comando di polizia della capitale armena, in cui una trentina di assalitori erano penetrati lo scorso 17 luglio, uccidendo il vice comandante e prendendo in ostaggio gli altri agenti.
Intorno alle tre di questa notte (l’una in Italia) la Tass scriveva da Erevan che le circa due migliaia di manifestanti, riunitisi nella tarda serata di ieri in piazza della Libertà e che fino a quel momento avevano continuato a bloccare la prospettiva Maresciallo Bagramjan, una delle principali arterie stradali della capitale armena, avevano deciso di interrompere il meeting di protesta, per tornare a riunirsi questa mattina. A lungo la folla era rimasta indecisa sul da farsi; poi un forte acquazzone aveva deciso per loro e i cortei si erano sciolti.
Alle 17 di ieri ora locale, era scaduto l’ultimatum dato dalle forze di sicurezza armene al gruppo armato. Ma, scaduta l’ora fissata, né la polizia aveva proceduto ad alcun tentativo di fare irruzione nell’edificio, né gli assaltatori si erano arresi, né tantomeno erano cessate le manifestazioni a loro sostegno. Invece, poco dopo la scadenza dell’ultimatum, c’era stata l’uccisione di un poliziotto trentenne, tra quelli che da due settimane circondano la zona del sequestro, con un colpo di precisione alla testa sparato da un cecchino dall’interno dell’edificio. Qui infatti, gli assalitori dispongono di una notevole scorta di armi e di munizioni, dal deposito del comando di polizia preso d’assalto. Questa mattina, gli assalitori hanno liberato gli ultimi due ostaggi ancora nelle loro mani, un medico e un’infermiera, del gruppo di sanitari entrati nell’edifico il 27 luglio per prestare soccorso agli uomini rimasti feriti in seguito alle sparatorie con la polizia schierata tutt’intorno.
Dopo i violenti scontri di venerdì sera tra polizia e manifestanti che appoggiano il gruppo attaccante; dopo che, per due settimane, non è mai cessata la fucileria da parte del gruppo rintanato nell’edificio, ieri un comunicato del Servizio di sicurezza dichiarava che “ogni ragionevole possibilità di soluzione pacifica è scomparsa”. In effetti, a partire dai giorni immediatamente seguenti il 17 luglio, praticamente ogni sera si sono svolte manifestazioni dell’opposizione, a sostegno del gruppo “KrAZ”, per chiedere le dimissioni del Presidente Serzh Sargsjan e la scarcerazione di Zhirair Sefiljan, leader del movimento “Parlamento costituente”, arrestato il 20 giugno per possesso e trasporto illegale di armi. Le autorità, pur senza proclamare nessun particolare stato d’emergenza, si sono limitate a proibire meeting nell’area in cui, da due settimane, si stanno conducendo le trattative per cercare una soluzione non cruenta della situazione. Sono invece state permesse manifestazioni in altre zone della capitale; solo venerdì sera, con il tentativo dell’opposizione di concentrarsi nella zona interdetta, si erano verificati scontri di una certa entità: Interfax scriveva ieri di una settantina di feriti e oltre 160 fermati in seguito agli scontri della sera precedente; tra i fermati, figurava anche il vice-presidente del partito di opposizione “Eredità”, Armen Martirosjan; numerosi i giornalisti rimasti contusi in seguito alle cariche della polizia e per lo scoppio di granate assordanti.
Oggi, il portavoce del “ministero” degli esteri della UE si è detto preoccupato per gli avvenimenti di Erevan: “ribadiamo il nostro appello alle autorità armene ad evitare un uso eccessivo della forza da parte della polizia contro le manifestazioni pubbliche. Anche i manifestanti dovrebbero astenersi dalla violenza nell’esercizio dei loro diritti civili”. Anche il capo rappresentanza dell’Osce in Armenia, Argo Avakov, si è espresso per una soluzione non violenta della situazione a Erevan, facendo appello a “tutte le parti a esercitare la massima moderazione e non ricorrere alla violenza e astenersi da provocazioni per frenare il crescente rischio di una escalation”. Ieri, era stato il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, a esprimere “preoccupazione per gli avvenimenti … vorrei ricordare che in paesi che si attengono alla supremazia della legge, tutti i problemi devono esser risolti con il dialogo politico, il rispetto delle regole e degli standard di democrazia”. Jagland aveva invitato le parti in conflitto a por termine a “questa situazione pericolosa e tornare ad adottare metodi democratici. Democrazia, supremazia dei diritti dell’uomo e della legge devono prevalere. La libertà di riunione deve essere rispettata pienamente”.
Considerando che le autorità armene non hanno considerato l’avvenimento come terroristico e non hanno quindi limitato né diritto di riunione o di manifestazione o di libertà di stampa, dopo gli appelli che, al contrario di altre situazioni ben note, giungono ora dalla UE, viene spontaneo ricordare come alcuni osservatori, su Sputnikarmenia, già prima del 17 luglio esprimessero timori circa un “calco” degli avvenimenti georgiani o ucraini, con una piazza della Libertà al posto di una piazza dell’Indipendenza. Tanto più che, come da copione, non si è mancato di mettere in giro voci su non meglio precisati interventi (quando? dove? in appoggio all’opposizione o alla leadership armena?) ora di reparti speciali ceceni, ora di forze di sicurezza russe. In effetti, la situazione in Armenia aveva cominciato a entrare in ebollizione lo scorso ottobre, allorché il fronte di opposizione “Nuova Armenia”, aveva annunciato l’inizio di un “processo di disordini civili, per il cambiamento di regime” nel paese. “E’ impossibile raggiungere un cambio di potere attraverso le elezioni”, aveva detto Sefiljan; “ciò si può ottenere solo con una insurrezione del popolo”.
Fabrizio Poggi
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