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Dopo Ankara, “movimenti” in Armenia e Kazakistan

Tra ieri e oggi si sono susseguiti attacchi contro posti di polizia in ben due capitali di ex repubbliche sovietiche. Ieri è stata la volta della capitale armena Erevan. Stamani è toccato all’ex capitale del Kazakistan, Alma Aty; qui, al momento di scrivere, dopo che due ostaggi erano stati liberati nel primissimo pomeriggio, le autorità hanno dichiarato conclusa l’operazione, al costo di cinque morti e sette feriti. L’attacco era stato condotto stamattina all’edificio che ospita la direzione dipartimentale del Ministero degli interni e del Comitato di sicurezza nazionale; immediatamente, in città era stato proclamato il livello rosso, quello massimo, di pericolo terroristico. Secondo le testimonianze, un unico attaccante, dai tratti asiatici, barba folta e vestito completamente di nero, ha tentato di introdursi nell’edificio, aprendo il fuoco contro gli agenti di guardia. Nel pomeriggio, però, è stato fermato un altro individuo, ritenuto coinvolto nella sparatoria, mentre sono state smentite le voci di altri attacchi in diverse parti della città.

A Erevan invece, dove alle 5 di ieri una trentina di membri armati del movimento “KrAZ” era penetrato nell’edificio del comando di polizia della capitale armena, uccidendo il vice comandante del reggimento e prendendo in ostaggio gli agenti che vi si trovavano e anche gli ufficiali giunti per parlamentare, proseguono le trattative per cercare di risolvere pacificamente la cosa.

Mentre nel caso di Alma Aty, le opinioni degli esperti appaiono al momento discordi – se si tratti di un attacco islamista o di criminalità comune – per Erevan le autorità, pur smentendo le voci di una “insurrezione”, proclamata dagli attaccanti, hanno da subito parlato di tentativo di colpo di stato da parte di simpatizzanti di Zhirair Sefiljan, leader del movimento “100 anni senza regime” e definito da Sputnik “uno dei signori della guerra nella regione del Nagorno-Karabakh”, in cui le parti azere trovano da sempre concreto sostegno ad Ankara. Sefiljan era stato arrestato lo scorso 20 giugno, ufficialmente, per possesso e trasporto illegale di armi; secondo i suoi sostenitori, invece, la vera ragione risiede nelle posizioni da lui espresse a proposito della situazione nel Nagorno-Karabakh. In effetti, la situazione aveva cominciato a entrare in ebollizione lo scorso ottobre, allorché il fronte di opposizione “Nuova Armenia” aveva annunciato l’inizio di un “processo di disordini civili, per il cambiamento di regime”. “E’ impossibile raggiungere un cambio di potere attraverso le elezioni”, aveva detto Sefiljan; “ciò si può ottenere solo con una insurrezione del popolo”.

Da parte sua, il vice presidente del partito di opposizione “Eredità”, Armen Martirosjan aveva dichiarato che, una volta preso il potere, “Nuova Armenia” avrebbe formato un governo di fiducia nazionale. Uno dei leader del movimento di protesta “In piedi, Armenia!”, Andreas Gukasjan aveva invece dichiarato che “la società si varrà del diritto alla disobbedienza civile, sia prima che dopo il referendum sulla riforma costituzionale.” Il referendum in effetti si tenne il 6 dicembre e il 60% della popolazioni si espresse per il passaggio alla forma parlamentare di governo, sostenuta dal partito al potere e dal Presidente Serzh Sargsjan e avversata invece da partiti e movimenti di opposizione. Secondo Sargsjan, nella Costituzione in vigore fino al referendum, che prevedeva un sistema semipresidenziale, mancava “una proporzionalità di diritti e di responsabilità”, con “le funzioni esecutive divise tra Presidente e premier, mentre la formazione del governo è decisa a metà tra presidente e parlamento”.

A parere di vari osservatori, sia armeni che russi, è oltremodo inverosimile il ventilato legame tra l’abortito “golpe” in Turchia e l’episodio di Erevan. Tuttavia, gli esperti sono concordi nel ritenere che gli avvenimenti armeni e l’instabilità che ne potrebbe seguire potrebbero favorire le mire sia di Baku che di Ankara, già strettamente legate nella questione del Nagorno-Karabakh.

Se dunque gli avvenimenti armeni fanno pensare, nel complesso, a una faccenda “interna” (nei limiti in cui può intendersi un tentativo di assalto al potere in cui manca completamente la certezza di una non interferenza da parte di chi, da decenni, sta dietro alle “rivoluzioni colorate” nelle ex repubbliche sovietiche), tornando ad Alma Aty, il Presidente kazako Nursultan Nazarbaev, ha definito l’attacco di stamani un “atto terroristico”. L’episodio si è verificato quando nel paese è ancora in vigore il livello “giallo” di pericolo terroristico, dopo le vicende di un mese fa ad Aktobe, che provocarono la morte di otto persone, oltre a 18 terroristi liquidati nel corso dell’operazione. E, come in quell’occasione si era ventilata l’ipotesi che l’attacco “salafita” potesse mascherare interferenze esterne, anche oggi le opinioni degli esperti discordano sulla reale matrice dell’attacco. Secondo Stanislav Pritcin, del Centro per l’Asia Centrale e il Caucaso dell’Accademia delle Scienze russa, non ci sarebbero legami tra i due episodi; ma, in ogni caso, pur se l’attacco di oggi sembra rivestire carattere di criminalità comune, Pritcin considera giustificato il passaggio dal livello “giallo” a quello “rosso” di pericolo. Di diverso parere il collega di Pritcin, Aleksandr Vasilev, che ha dichiarato alla Tass di non escludere la possibilità che Aktobe ed Alma Aty siano due anelli di un’unica catena. Tanto più che è alto il “livello di minaccia terroristica in Kazakistan, a causa del fatto che molti kazaki hanno partecipato ai combattimenti in Siria dalla parte dei terroristi e, dopo l’avvio delle operazioni russe in Siria, molti di loro si sono affrettati a tornare a casa”.

Da parte russa, per quanto riguarda la generale instabilità nella regione, con la catena alquanto ravvicinata che ha legato nel giro di tre giorni Ankara, Erevan e Alma Aty, il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov, pur dichiarando che “in un caso si tratta di un tentativo di colpo di stato che ha portato a numerose vittime, negli altri casi di episodi criminali”, ha però precisato che la sicurezza alle frontiere russe è stata elevata, dato che “queste turbolenze alle nostre frontiere sono fonte di preoccupazione e ciò determina la necessità di seguire da vicino e analizzare la situazione”.

 

Fabrizio Poggi

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