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Anche il G20 fa solo storytelling, per conto del B20

Come tutti i vertici, anche quello appena concluso a Hangzhou ha partorito il suo ben documentino finale. Novità? Una sola, a parere dei media mainstream: l'accentuazione della necessità di adottare globalmente politiche che possano "stimolare una crescita inclusiva, solida, sostenibile e l'occupazione". In un certo senso è quel che serviva a ogni premier presente per affrontare il ritorno in patria con una nuova storiella da raccontare agli elettori (le classi sociali, da quelle altezze, sembrano non più visibili…), primo fra tutto Renzi, con Merkel fresca di scoppola nel suo land.

Il timore per il montare universale del malessere sociale (in forme progressiste o pericolosamente reazionarie, come nel caso dell'Afd tedesca o del solito Trump) ha costretto i 20 a inserire nel testo una frase rivelatrice: bisogna aumentare la "percezione delle persone sui benefici di commercio e investimenti". Prepariamoci dunque a un'offensiva fatta di storielle che debbono spiegarci come esiste un legame virtuosissimo e benefico tra "riforme strutturali, commercio, investimenti e Pil".

Per il resto è il solito documento che parla di tutto con “spirito costruttivo” e che fa scrivere, anche a un osservatore superficiale, che è il “solito libro dei sogni”, dove si susseguono pensieri edificanti su "lotta al terrorismo", governo dei flussi migratori, cambiamento climatico, aiuti allo sviluppo, ecc.

Chiuso il summit, ognuno tornerà ad occuparsi delle proprie aree di competenza avendo ben chiaro che i propri interessi e quelli degli altri 19 sono in concorrenza, non in cooperazione.

A cominciare proprio dal diverso risultato della “globalizzazione” dei mercati – o ciò che ne resta, dopo l'abolizione di fatto dei vertici Wto sul commercio globale – sulle singole economie e quindi anche sul relativo benessere delle rispettive popolazioni. Mentre gli “emergenti”, a cominciare da Cina e India, possono presentare ai propri popoli delle scelte in qualche modo “positive” per molti (l'aumento vertiginoso e prolungato del Pil ha prodotto anche una consistente riduzione della povertà), i paesi più industrializzati sono nella condizione opposta: qui la “piena libertà di movimento di merci e capitali” si è tradotta in delocalizzazioni, smentellamenti industriali, disoccupazione di massa, compressione salariale, distruzione dei sistemi di welfare (salario indiretto e differito). E in questi paesi, più che in altri in varia misura “abituati” a periodiche migrazioni di dimensioni bibliche, l'immigrazione provocata da guerre e carestie risulta “intollerabile minaccia ai nostri standard di vita”.

Di fatto, le “promesse espansive” della liberalizzazione dei commerci si sono rivelate una truffa, una storiella per i gonzi, una rovina per quel “ceto medio” in cui gli analisti mainstream fanno entrare i piccoli imprenditori, i professionisti e i lavoratori dipendenti con una relativa stabilità occupazionale. 

Ma allora, questi vertici, a cosa servono? Intanto a permettere alle imprese multinazionali di condizionare a proprio vantaggio le eventuali scelte dei “leader politici”.

Non è più un segreto che ogni G20 sia ormai accompagnato da un B20, ossia da un vertice delle maggiori multinazionali globali. Anche a Hangzhou è avvenuto lo stesso. Amministratori delegati e presidenti si sono strutturati in ben cinque task force impegnate a delineare i desiderata delle imprese in materia di finanza, commercio e investimenti, infrastrutture, piccole e medie imprese e lavoro; affiancate da un forum sulla corruzione e le sue conseguenze sul business.
Il programma del B20 era però decisamente chiaro: “Le norme ambigue e inefficienti che governano il mercato del lavoro, il business e gli spostamenti delle persone sono le più grandi barriere per migliorare l’occupazione. Le restrittive leggi sul lavoro, sulle imprese e sui trasferimenti rendono difficili le assunzioni da parte delle imprese e impediscono alle società di crescere”. La traduzione non è complicata: nessuna tutela del lavoro dipendente, nessun intralcio doganale alla circolazione di merci e capitali, massima fluttuazione delle persone attraverso le frontiere.

Quest'ultimo “punto di programma” ha certamente un aspetto esteriore molto “progressista”, ma in realtà è sostenuto unicamente dal bisogno dell'impresa di avere in ogni luogo le “competenze” necessarie al più basso prezzo possibile, senza alcuna preoccupazione per l'impatto che questi “rimescolamenti rapidi” possono avere su popolazioni impoverite e che dunque, in assenza di spiegazioni più realistiche, vengono spinte a individuare nello “straniero” il colpevole del proprio impoverimento.

Non si tratta di un'illazione, perché dal documento programmatico del B20 si spiegava esplicitamente: “Nell’era moderna della globalizzazione e della penetrazione tecnologica, le regole devono essere scritte in modo tale che i beni, i servizi, le persone e le idee innovative vengano usate dove riescono a produrre i benefici economici e sociali maggiori. Riducendo le inefficienze e le eccessive regolamentazioni si promuoverà l’innovazione e l’imprenditorialità e si provvederà ad aumentare le possibilità di lavoro, soprattutto per i giovani”. Non la libera circolazione "di tutti", insomma, ma soltanto quella di chi possiede conoscenze o idee innovative… 

Basta chiedere ai nostri giovani, in tutta Europa ed anche negli Stati Uniti, quanto questo “programma” si sia dimostrato con i fatti a loro favore. Ogni smantellamento di diritti, ogni violazione contrattuale si è tradotta in più disoccupazione e salari più bassi. Anche al di sotto della soglia di sopravvivenza, ormai. Fino al “lavoro gratuito” sperimentato dell'Expo milanese…

Ma basta anche vedere il recente esempio di Apple in Irlanda per verificare che l'interesse di un'impresa multinazionale e quello di un paese (o di un intero continente, come in questo caso) sono sempre opposti e mai “convergenti”. Come ivece la retorica imprenditoriale vorrebbe e continua a raccontare.

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