Se il presidente della Bundesbank – la banca centrale tedesca – convoca di domenica, per dare un'intervista, gli inviati di quattro grandi quotidiani europei (La Stampa, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e Le Monde) c'è una svolta politica alle porte. E vuole comunicarne le direttrici fondamentali.
Scorrendo le risposte, però, non si trova quasi nulla che possa essere definito “nuovo”. Alcune frasi potevano esser dette otto anni fa – dopo l'inizio della più grave congiuntura di crisi della storia capitalistica – e ci si trova a pensare che Jens Weidmann non sia, per questo motivo, quel gran genio dell'economia che dovrebbe essere per sedere su quella poltrona.
Dire, solo per fare un esempio, che “Una politica di austerity ambiziosa c’è stata soltanto in pochissimi Paesi. La Francia o la Spagna oltrepassano già da anni, con la loro politica di bilancio, i requisiti del patto di stabilità. In Italia il deficit è sceso negli ultimi tempi solo perché il Paese ha dovuto pagare meno interessi sul debito. I tassi più bassi hanno contribuito anche al pareggio di bilancio in Germania” sembra una risata in faccia a tutti quei paesi – a cominciare dalla Grecia per arrivare infine a Italia e Francia – che hanno pagato prezzi durissimi a una inea di politica economica che si è rivelata materialmente suicida.
Di tutto quello che questi paesi hanno fatto, crocifiggendo le rispettive popolazioni, Weidmann salva soltanto la precarizzazione del lavoro e la concentrazione del potere politico in poche mani e per sempre: “Il Jobs Act, così come l’Italicum hanno un approccio corretto”.
Rispondere, di fronte alla domanda “Roma ha già annunciato di voler correggere al ribasso le stime di crescita. Bisogna proseguire con l’austerity?” con una battuta da avanspettacolo come “La domanda è semmai: c’è stata davvero una politica di austerity in Italia?” comporterebbe – come contrappasso – l'esibizione del fine dicitore davanti a un uditorio popolare nostrano, particolarmente salace e dalle mani pronte al lancio.
Insistere nel ripetere che «Una moneta comune stabile ha molti vantaggi per i cittadini e le imprese» equivale al voler provocare moti di piazza anche in popolazioni di solito intente ad altre occupazioni.
E infine, mentire spudoratamente sulla “sovranità di bilancio” che sarebbe – purtroppo, secondo lui – ancora nelle mani dei governi nazionali significa voler nascondere la brutale realtà dei fatti, come dovranno verificare ancora una volta, a novembre, tutti i governi dell'Unione Europea; quando verranno presentate le leggi di bilancio (non a caso chiamate ora “di stabilità”) perché vengano vagliate e all'occorrenza corrette brutalmente dai funzionari di Bruxelles.
Resta il fatto certo che Weidmann non è affatto cretino. Dunque non resta che accettare l'alternativa: rappresenta interessi. Interessi che hanno determinato la situazione attuale, che intendono continuare ad ridisegnare le catene del valore e della produzione nel Vecchio Continente, oltre che le mappe del potere finanziario (“le banche devono verificare i loro modelli di business e ridurre i costi. Le uscite dal mercato non devono essere un tabù”. Traduzione: debbono esser lasciate fallire, se non sono tedesche, ovvio…).
Ci si chiedeva, in questi mesi post Brexit, in piena tensione con vari paesi sulla politica dei migranti, ecc, se l'Unione Europea avrebbe provato – almeno provato – a cambiare qualcosa nella sua catastrofica politica. Weidmann si è fatto subito avanti per dire un secco “neanche per sogno, per noi le cose vanno bene così; anzi saremo ancora più duri”.
Ottimi motivi, insomma, per sbrigarsi ad andare in direzione opposta.
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“L’Italia ha già abusato della flessibilità. E non ha tagliato il debito pubblico”
ALESSANDRO ALVIANI – LA STAMPA
BERLINO
Dodicesimo piano della sede della Bundesbank a Francoforte. Jens Weidmann riceve La Stampa, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e Le Monde per un colloquio di un’ora e mezza in cui si sofferma a lungo sulle decisioni della Bce e sulla Brexit, ma anche sull’Italia e l’austerity.
Il governo italiano spera in una maggiore flessibilità, che alla fine tornerebbe utile anche ad altri Paesi.
«Il patto di stabilità e crescita non è affatto rigido. Contiene numerose eccezioni, non solo in caso di oneri imprevisti. Tale flessibilità è già stata stravolta e abusata, la funzione disciplinante del patto sui bilanci pubblici ne ha risentito notevolmente. Finanze statali solide sono però importanti per la sostenibilità futura dei singoli Paesi e per la stabilità dell’unione monetaria. Un fuoco di paglia congiunturale finanziato col debito non rimuoverebbe la debolezza strutturale della crescita in Italia. Quello di cui c’è bisogno è che il governo italiano applichi e porti avanti le riforme strutturali che ha già iniziato. Il Jobs Act, così come l’Italicum hanno un approccio corretto».
Roma ha già annunciato di voler correggere al ribasso le stime di crescita. Bisogna proseguire con l’austerity?
La domanda è semmai: c’è stata davvero una politica di austerity in Italia? Visto l’elevato debito pubblico il consolidamento di bilancio rappresenta un compito prioritario – anche per evitare che sorgano dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico.
In Europa molti cittadini chiedono la fine dell’austerità.
Unapolitica di austerity ambiziosa c’è stata soltanto in pochissimi Paesi. La Francia o la Spagna oltrepassano già da anni, con la loro politica di bilancio, i requisiti del patto di stabilità. In Italia il deficit è sceso negli ultimi tempi solo perché il Paese ha dovuto pagare meno interessi sul debito. I tassi più bassi hanno contribuito anche al pareggio di bilancio in Germania.
Quando, se non adesso, i governi europei dovrebbero spendere?
In Europa abbiamo troppi debiti, non troppo pochi. E i bassi tassi di interesse continuano a fiaccare la disciplina di bilancio. Le montagne di debiti possono diventare un problema al più tardi nel momento in cui i tassi di interesse riprendono a crescere, perché a quel punto potrebbero essere non più sostenibili.
Molti chiedono al governo tedesco di investiredi più – per l’Europa.
L’idea che la Germania possa dare una spinta alla congiuntura europea attraverso un programma di investimenti pubblici è ingenua. Da una parte gli effetti di ricaduta economica sugli altri Paesi sono troppo bassi. Dall’altra per una crescita sostenibile sono determinanti le condizioni locali – intendo non solo strade e ponti, ma anche un’amministrazione ben funzionante, una giustizia efficiente e un elevato livello d’istuzione».
Crede sia possibile un accordo a livello europeo per consentire agli Stati membri di ristrutturare il proprio settore bancario, eventualmente anche tramite il ricorso ai fondi dell’Esm, affinché i problemi della scarsa redditività e dei crediti deteriorati possano essere finalmente risolti?
«Affrontare con decisione in Italia il problema dei crediti deteriorati rappresenta un’importante premessa affinché il sistema bancario possa adempiere senza limitazioni alla sua funzione economica, in quanto i crediti deteriorati rappresentano un ostacolo alla crescita. Ciò però non deve portare a distorcere laconcorrenza o far sì che proprietari e creditori possano sottrarsi alle loro responsabilità a danno dei contribuenti. Per questo devono essere rispettate le norme europee sugli aiuti di Stato e le disposizioni del Brrd (la direttiva sulla gestione delle crisi, ndr.). E, come ovunque in Europa, le banche devono verificare i loro modelli di business e ridurre i costi. Le uscite dal mercato non devono essere un tabù».
La Bce immetterà sui mercati 80 miliardi di euro al mese fino a marzo 2017. Il programma di acquisto dei titoli andrebbe esteso, visto che l’inflazione resta bassa?
«Nella sua ultima riunione il consiglio della Bce ha discusso le nuove previsioni. Dal momento che quelle sull’inflazione sono cambiate in modo solo impercettibile non ha visto – a ragione – nessun motivo per rilanciare sul fronte della politica monetaria».
A marzo la Bce dovrebbe interrompere del tutto il programma e alzare in breve tempo i tassi di interesse o Lei preferirebbe una fase d’uscita più lunga?
«La decisione presa prevede che il programma di acquisto dei titoli duri almeno fino al marzo del 2017. Quello che succederà dopo lo discuteremo e decideremo nel consiglio della Bce sulla base dei dati di cui disporremo in quel momento. Non dobbiamo però ignorare i rischi di una politica monetaria ultraespansiva, che diventano tanto più grandi quanto più dura la fase dei bassi tassi di interesse. I tassi non devono in nessun caso restare così bassi più a lungo di quanto sia necessario per la stabilità dei prezzi. I possibili problemi di singoli istituti finanziari o bilanci statali non devono impedirci di normalizzare la politica monetaria non appena necessario».
A volte pensa a come ci si sentirebbe a essere presidente della Bce?
«Nel consiglio della Bce pensiamo tutti insieme, indipendentemente che si tratti del presidente della Bundesbank o della Bce, a come gestire la politica monetaria europea».
Vorrebbe succedere a Draghi?
«Sono il presidente della Bundesbank – e lo faccio molto volentieri. Inoltre considero fuori luogo discutere della successione a Mario Draghi a metà del suo mandato».
Quanto è dannoso il protrarsi delle trattative per la Brexit?
«È indubbio che l’incertezza relativa al momento e alle modalità del divorzio pesino sull’economia. Per questo bisognerebbe far chiarezza quanto prima. Al tempo stesso l’uscita di un Paese dalla Ue è qualcosa che avviene per la prima volta e comporta negoziati complessi che devono svolgersi, nell’interesse di tutti, in modo equo. La Ue non dovrebbe stabilire una punizione esemplare né può esserci un precedente per il quale un Paese seleziona le parti a lui più vantaggiose».
La Brexit non ha provocato finora nessuna catastrofe.
«Finora la Gran Bretagna non ha presentato la richiesta di uscita. Dalle reazioni finora moderate al voto non bisogna concludere che l’uscita resterebbe senza conseguenze negative. Dal punto di vista economico la Gran Bretagna è legata in modo molto stretto alla Ue e alla Germania. Se si rende più difficile l’accesso reciproco ai rispettivi mercati si frena la crescita soprattutto in Gran Bretagna».
Londra potrà conservare i diritti di passporting se lascierà la Ue?
«I diritti di passporting (gli accordi che permettono di svolgere un’attività economica in tutti i paesi comunitari senza il bisogno di ottenere permessi specifici per ogni nazione, ndr) sono legati al mercato interno e vengono automaticamente meno se la Gran Bretagna non dovesse restare quanto meno nello spazio economico europeo. Ciò influenzerebbe di sicuro in modo decisivo anche il futuro della City».
Non ci sono alternative all’euro oppure nel peggiore dei casi bisogna concludere questo esperimento?
«Una moneta comune stabile ha molti vantaggi per i cittadini e le imprese. Per questo mi impegno affinché l’unione monetaria sia un’unione della stabilità, così come la politica ha promesso ai cittadini. Speculazioni su ipotetici scenari estremi non ci portano da nessuna parte».
Mario Draghi chiede l’unione politica.
«Ancor prima della nascita dell’unione monetaria Helmut Kohl disse che bisognava completarla con l’unione politica. Ciò presupporrebbe la cessione di diritti di sovranità all’Europa da parte degli Stati, in particolare il diritto fondamentale del Parlamento: la sovranità di bilancio. In questo momento non vedo però la disponibilità a compiere questo passo. Al contrario, ultimamente è stato posto semmai l’accento sui margini d’azione nazionali. I governi e i parlamenti non vogliono intromissioni da Bruxelles. Lo dimostra anche il modo in cui sono affrontate le regole europee di bilancio, che vengono messe sempre più in discussione».
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De Marco
Il sentiero di consolidazione fiscale neoliberale è fallito come avevamo previsto sin dall'inizio. Questa politica di equilibrio di bilancio, di austerità e spending review fu iscritta nell'Articolo 81 della Costituzione prima dei Two e Four Pack europei ma nel silenzio generale. Avevo chiesto all'epoca un referendum senza nessuna risonanza a sinistra!
L'Italia è in infrazione ormai da un paio di anni con le regole europee da essa accettate e sostenute. Sarà difficile ottenere maggiore flessibilità nel quadro europeo. E anche ingiusto visto le politiche irrazionali e inegualitarie dei nostri dirigenti. Tuttalpiù la UE europea, resa prudente dal Brexit, imporrà all'Italia le stesse condizioni già imposte al Portogallo e alla Spagna; cioè invece di imporre una penalità di 0,2 % del PIL per non rispetto dei parametri, si cercherà di imporre una sospensione più alta dei fondi strutturali europei.
Il tentativo italiano iniziato col vertice spinelliano di Ventotene fallì miserabilmente. Questo fallimento fu confermato a Bratislava. C'è dunque da aspettarci tagli supplementari ai servizi pubblici ed ai contratti, spending review e privatizzazioni accelerate incluso per le partecipate locali. Malgrado questi tagli ci saranno comunque alcuni regali ai poteri forti e alle banche. Quelli che vorranno andare in pensione in anticipo dovranno pagare da tasca propria oltre ad una sorta di pizzo per le banche. I contratti della funzione pubblica sarebbero solo rinnovati al ribasso in cambio di più ore – tanto per i giovani c'è il circo della garanzia giovane! Con queste politiche neoliberali-gutgeldiane, forse l'Italia otterrà che la UE chiude gli occhi per uno altro anno!
Non si esce qui questa grottesca situazione attaccando la UE senza denunciare le politiche dei servi in camera del capitale speculativo nostrali.
Paolo De Marco