Nuova ondata repressiva in Turchia, in queste ore. I due sindaci di Diyarbakir, la maggiore città a maggioranza curda del Sud-est della Turchia (che i curdi chiamano Amed), sono stati arrestati nell'ambito di un'indagine legata al "terrorismo". L'arresto di Gultan Kisanak e Firat Anli è avvenuto con un imponente dispositivo di polizia attorno al municipio della città, considerata la "capitale" curda e teatro di uno scontro prolungato fra le forze di sicurezza turche e i guerriglieri del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. L'arrivo delle truppe turche ha provocato la reazione di centinaia di manifestanti, tra questi una deputata yazida che è stata arrestata, che sono stati dispersi con la violenza dalla polizia, con idranti e lacrimogeni. Le autorità hanno deciso di sospendere 'temporaneamente' l'accesso ad internet e alla telefonia mobile nelle province curde di Diyarbakir, Mardin, Batman,Siirt, Van, Elazığ, Dersim, Antep, Şanlıfurfa e Kilis.
"Ancora una volta ci troviamo di fronte a una situazione illegale. Questi sindaci son stati eletti dal nostro popolo e sono stati arrestati come fossero dei fuorilegge", ha detto Sahabat Tuncer, copresidente del Partito Democratico delle Regioni, una costola del Partito Democratico dei Popoli operante solo nei territori a maggioranza curda della Turchia. "Da quasi un anno e mezzo il nostro partito è oggetto di una politica speciale – ha aggiunto – Lo Stato fa del terrorismo contro i nostri partiti. Arresta i nostri dirigenti, confisca ciò che il popolo ha guadagnato con grandi sacrifici. Semina il caos nelle nostre città", ha concluso la leader del Dbp. Nell’ultimo anno ben 2500 dirigenti, amministratori e militanti del Partito Democratico delle Regioni sono stati arrestati e incarcerati, tra questi il co-presidente, decine di co-sindaci e consiglieri comunali. Finora sono state ben 26 le municipalità amministrate dal DBP che sono state commissariate dal governo centrale dopo aver inabilitato i sindaci regolarmente eletti, e quattro membri del partito sono stati uccisi dall’esercito turco durante il feroce assedio di Cizre e Silopi.
Dal fallito colpo di stato militare del 15 luglio scorso, secondo i dati diffusi dal ministro della Giustizia di Erdogan, Bekir Bozdag, le persone arrestate sono state più di 35 mila, quelle indagate più di 82 mila; altre 3907 persone sarebbero ancora ricercate e altre 26 mila sarebbero state rilasciate sotto “controllo giudiziario” e dopo che nei loro confronti è stato aperto un procedimento penale. Per non parlare di più di 100 mila persone che sono state cacciate o sospese dal loro posto di lavoro nell’esercito, nella polizia, nella magistratura, nella scuola, nell’Università, nelle amministrazioni pubbliche, nei media ed in altri settori.
A proposito delle purghe repressive scatenate dal regime dopo il fallito putsch di luglio, l’organizzazione umanitaria internazionale Human Rights Watch, basata negli Stati Uniti, ha denunciato recentemente che molte delle persone arrestate sono state "torturate e maltrattate". Secondo il rapporto di 47 pagine redatto da HRW, lo stato d’emergenza proclamato dal regime concede di fatto "carta bianca" ai poliziotti per commettere abusi nei confronti dei detenuti. Privazione del sonno, percosse e minacce di violenza sono tra i principali maltrattamenti documentati da HRW che riferisce di aver intervistato 40 persone, tra cui avvocati, specialisti di medicina legale ed ex detenuti. Un uomo, Eyup Birinci, ha dichiarato al procuratore della Repubblica di Antalya che i poliziotti "lo avevano picchiato sulle piante dei piedi e sulla pancia" e minacciato di "castrarlo". L'organizzazione denuncia quello che definisce un "clima generalizzato di paura" instaurato dal regime.
Le maxi purghe, la violazione sistematica dei più basilari diritti democratici, la persecuzione delle opposizioni e degli intellettuali dissidenti, la chiusura di centinaia di media critici nei confronti del regime stanno causando un vero e proprio esodo dalla Turchia. A scappare non sono solo i dissidenti sui quali pende un mandato di cattura, ma anche molti studiosi e docenti, avvocati, giornalisti, medici finiti nel target del partito islamo-nazionalista che ha rapidamente occupato tutti i gangli del potere. Una ‘grande fuga’ simile a quella che seguì i colpi di stato fascisti realizzati dall’esercito nel 1971 e poi di nuovo nel 1980. Solo che stavolta è il ‘contro-golpe’ erdoganiano a provocarlo approfittando del maldestro tentativo da parte di settori militari irresponsabilmente imbeccati da Washington e da Bruxelles.
Negli ultimi 3 mesi oltre 4.200 accademici sono stati sospesi dal loro incarico, mentre più di 2.300 sono stati espulsi dalle università in cui lavoravano. Centinaia di docenti sono rimasti disoccupati a seguito della chiusura di 15 università private, legate al movimento di Fethullah Gulen, che il governo di Ankara accusa di aver organizzato il tentato golpe.
"Sono rimasta disoccupata e senza casa, per strada, nel giro di una notte", spiega la docente Maya Arakon (che lavorava alla Facoltà di relazioni internazionali dell'Università Suleyman Sah, uno degli istituti chiusi) in un'intervista alla BBC turca, specificando che la notte del tentato golpe si trovava negli Stati Uniti e che dopo quella data ha continuamente posticipato la data del rientro, per poi decidere di non partire affatto. “Avevo immaginato che avrebbero commissariato l'università, ma chiuderla completamente mi sembra una follia. Tra chi ci è andato di mezzo ci sono persone e studenti che come me non c'entrano niente con il movimento gulenista”, aggiunge Arakon.
Una sua collega, la linguista Necmiye Alpay, con la quale stava collaborando ad un libro, si trova attualmente agli arresti, accusata di terrorismo. Nonostante siano diversi i docenti che trovandosi all'estero a luglio hanno deciso di non rientrare in Turchia, una tale scelta non è alla portata di tutti.
A parte i problemi per l'ottenimento del visto, gli spostamenti degli accademici restano attualmente vincolati ai permessi speciali dei rettori delle università, accordati solo in caso di inviti ad hoc per convegni o seminari. E molte persone, accademici inclusi, si sono anche visti annullare il passaporto per diversi motivi.
Anche se mancano delle statistiche sul numero dei "cervelli" che hanno lasciato la Turchia recentemente, alcune organizzazioni come il “Fondo per salvare gli studiosi”, fondato dall'Istituto di educazione internazionale (IIE) a settembre riferiva di avere ricevuto 65 domande di accademici turchi che esprimevano "timore di essere perseguitati politicamente e, in alcuni casi, di essere imprigionati e di subire violenze". Al numero di domande "senza precedenti" giunti all'organizzazione statunitense si accompagna quello delle richieste presentate presso il Consiglio per gli accademici a rischio (CARA), una organizzazione britannica che sottolinea come le domande dei ricercatori turchi siano passate dai 4-5 a settimana dell'anno scorso alle 15-20 dell'ultimo periodo.
Dal gennaio 2016, quando un gruppo di accademici – i cosiddetti "accademici per la pace" – ha firmato una petizione contro gli interventi armati dello stato nella Turchia sudorientale chiedendo alle autorità di fermare la selvaggia repressione contro la comunità curda, gli accademici non allineati con il governo hanno iniziato ad essere perseguitati. Molti dei docenti firmatari della petizione hanno perso il loro posto nel corso delle epurazioni seguite al fallito golpe.
Marco Santopadre
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa