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La “competitività” assume i contorni della guerra

La globalizzazione è finita da un pezzo. Tanto che il Wto (World Trade Organization) di fatto non si riunisce più, una volta verificato che non si sarebbero più raggiunti accordi per l'abbattimento delle protezioni doganali fra paesi, mercati comuni, continenti.

Gli unici settori in cui si poteva ancora parlare di “mercato globale” erano insomma la finanza speculativa (il gioco in borsa e nello shadow banking) e le acquisizioni societarie. Queste ultime erano comunque soggette a ovvie limitazioni (il settore militare, in primo luogo), ma continuavano a riscrivere la mappa dei decisori nel mondo. Perché ogni merger tra società diverse ormai segna la nascita di un soggetto privato in grado di condizionare qualsiasi Stato e coalizione di Stati.

Ma le cose stanno rapidamente cambiando. Gli Stati Uniti, da qualche anno, stanno incentivando la “rilocalizzazione” delle produzioni ormai da decenni trasferite altrove. E sorvegliano con grande attenzione qualsiasi fusione o acquisizione che vede protagoniste società di paesi non appartenenti alla Nato.

Il concetto che si è è andato affermando è quello di “settore strategico”, che va ormai ben oltre l'ovvio comparto militare e comprende qualunque branca produttiva in qualche misura importante per l'indipendenza economica e la capacità competitiva (nel senso più largo) di un paese. Logistica e tecnologia, oltre che l'energia, sono dunque da tempo terreni off limits per le acquisizioni da parte di imprese straniere. Non è così per tutti i paesi, come sappiamo. L'Italia, ad esempio, non controlla quasi più nulla di rilevante (telecomunicazioni prima agli spagnoli e poi ai francesi, acciacio in dismissione o a disposizione del primo che se lo piglia, Alitalia prima ai “caporali coraggiosi” e poi agli sceicchi, ecc: resiste parzialmente l'Eni – al 70% collocata sul mercato – e le parti di Finmeccanica più strettamente connesse con il militare, compreso lo spionaggio elettronico e informatico). Altri paesi, ancora più deboli, come la Grecia, sono stati letteralmente spogliati di ogni industria nazionale minimamente rilevante, compresi porti (ai cinesi) e aeroporti (alla tedesca Fraport, casualmente).

Ma è la Germania, negli ultimi tempi, a mettere in campo una strategia a doppio binario: grandi acquisizioni (Bayer che compra l'americana Monsanto, per esempio) e forti limitazioni alle incursioni del capitale “straniero”. Una scelta molto “nazionalista” che vede protagonisti soprattutto i socialdemocratici guidati dal ministro dell'economia Sigmar Gabriel. Il quale ha già bloccato la vendita del produttore di semiconduttori Aixtron al gruppo gruppo cinese Fujan Grand Chip, ufficialmente per alcune “implicazioni militari” segnalate dalla Nato e dai servizi segreti Usa.

Ma una discussione tesa era avvenuta anche a proposito dell'interessamento di Midea, un gruppo del Guandong cinese, per il gruppo Kuka, specializzato nella produzione di robot industriali. Come si vede, le eventuali applicazioni militari (non impossibili, in linea teorica, perché qualsiasi tecnologia può essere utilizzata in qualunque modo, lavorandoci un po' sopra) non sono più l'unico ostacolo. Nel caso di Kuka, infatti, il pensiero corre immediatamente al vantaggio competitivo – nella produzione di merci per il mercato di massa – che si gioca tramite il possesso di determinate specializzazioni. E la costruzione di robot industriali, al pari delle centrali per la produzione di energia elettrica o altre ancora, è ormai il pilastro su cui si gioca la superiorità di un sistema.

Il problema investe ormai tutta l'Unione Europea, con la Francia anche più “dura” nel voler difendere il patrimonio produttivo nazionale. E comincia a farsi strada l'idea di dover addivenire al più presto a una normativa “protezionista” di livello continentale. In cui le uniche acquisizioni “libere” resterebbo quelle tra società comunitarie; mentre ogni merger rilevante per il mantenimento della competitività produttiva della Ue dovrebbe essere, se non vietato, “strettamente sorvegliato” per non avvantaggiare concorrenti globali.

Ovvero soprattutto la Cina, che presenta aziende multinazionali fortemente dotate di liquidità e a caccia di tecnologie di ultima generazione. Tutta roba coperta da brevetto, naturalmente. Al punto che acquistare la società che lo possiede diventa molto più semplice e rapido, o addirittura meno costoso che non cercare un difficile accordo di compromesso sulla cessione parziale del know how.

Ma se la concorrenza tra giganti viene sottoposta a limitazioni sostanziali – a partire dalle tecnologie – vuol dire che le dinamiche “competitive”, stimolate da una crisi quasi decennale e senza soluzioni, stanno arrivando a quel punto di rottura per cui la sopravvivenza di alcune grandissime aziende capitalistiche è possibile solo tramite l'eliminazione dei concorrenti di pari livello.

Un gioco sempre più rischioso, che coinvolge direttamente gli Stati e tutte le strutture politiche sovranazionali. E' insomma il punto in cui la famosa “competitività” inizia a trasformarsi in conflitto a tutto campo. Anche militare, ovviamente.

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