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Erdogan arresta il Partito Democratico dei Popoli

Democrazia rappresentativa in galera – Dopo mesi Erdoğan ha messo le mani sul nemico più temuto: il Partito Democratico dei Popoli. Ha posto agli arresti domiciliari i suoi segretari, Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, più nove deputati di questo partito. Un attacco diretto alla rappresentanza popolare, alla libertà di pensiero, alla democrazia stessa. Per gli amanti di statistica l’ennesimo colpo repressivo giunge dopo un anno dalla conferma elettorale dell’Hdp, che con 59 seggi aveva ribadito l’exploit delle consultazioni del giugno 2015 (80 deputati), quelle cosparse del sangue dei suoi militanti posti sotto l’attacco congiunto delle bombe dell’Isis e di quelle di Stato. Nonostante sia la terza forza del Paese tale componente, che organizza l’unica vera opposizione politica (quella personale di Gülen è altra cosa) al sistema-regime creato dal premier diventato presidente, risulta il nemico acerrimo di Erdoğan. Con la sua presenza istituzionale ha finora impedito che l’autoritarismo ricevesse il benestare parlamentare. L’accusa rivolta ai leader kurdi è quella di sempre: contiguità col Pkk posto fuorilegge (anche da Stati Uniti e Unione Europea) e perseguito con ogni mezzo. Per garantire la “sicurezza nazionale” messa in pericolo dal tentativo di golpe del luglio scorso attuato da militari e militanti del movimento Fetö, ex sodali del partito di governo, proseguono emergenza e nel sud-est anatolico coprifuoco.

Giorni nerissimi di dittature già conosciute – Continuano epurazioni (oltre 30.000 sono finora gli arresti, 100.000 licenziamenti di dipendenti pubblici e privati), chiusure di organi d’informazione (170 testate) e ovviamente incarcerazioni di giornalisti. Parecchi, già toccati dalla repressione come il direttore di Cumriyet Can Dündar imprigionato e rilasciato, sono riparati all’estero. E contro una testata semplicemente progressista, che svolge con precisione il mestiere di informazione-controllo-critica, sono intervenuti anche editorialisti dell’ultimo giornale liberale ancora non irrigimentato: l’Hürriyet. Recentemente Ahu Özyurt, ricordando la sua formazione su quella testata, ha scritto: “Cumriyet è la nostra Sarajevo, e non cadrà”. Però la furia con cui la mannaia governativa s’abbatte sulle teste di avversari e di presunti tali è finora strabordante; e il clima nel Paese ha il sapore dei giorni nerissimi di dittature già conosciute.  Da stanotte i maggiori social media (Facebook, Twitter, Youtube, Whatsapp) sono inaccessibili e anche circumnavigazioni in rete attraverso differenti network risultano impossibili. L’ultimo accesso l’ha compiuto proprio Demirtaş, mostrando il suo fermo attuato dagli agenti. Un deputato dell’Hdp che si trova all’estero ha lanciato un messaggio ai colleghi di altre nazioni denunciando l’accaduto e ricordando come simili iniziative non abbiano nulla a che vedere con procedure d’emergenza, né qualsiasi legge e costituzione. “Sono assolutamente illegali – ha detto – e mirano a cacciare il nostro partito dal Parlamento”.

Cancellare l’opposizione parlamentare – In realtà dopo l’arresto dei sindaci di varie città kurde avvenuto nei giorni scorsi il partito del presidente stringe verso la soluzione finale: azzerare la rappresentanza di circa sei milioni di cittadini che hanno dato fiducia a un gruppo che parla di democrazia e laicità in maniera nuova, superando il nazionalismo kemalista nel suo riformismo di maniera dei repubblicani o nel viscerale sciovinismo parafascista dei Lupi grigi di Bahçeli. Il raggruppamento Hdp, nato quattro anni or sono, supera le chiusure nazionaliste, parla di autonomia, parità di sessi e rappresentatività, mira a una trasformazione egualitaria della società, è laico rispettando le altrui fedi, è solidale ricercando la collaborazione fra etnie. E’ la carta che ha sparigliato la politica turca bloccata fra nostalgie del paternalismo trascorso che l’ha gettata fra le braccia d’un padre-padrone del presente. E’ la mossa che mette in difficoltà gli stessi duri e puri della “lotta armata per sempre” presenti nel Pkk che probabilmente mal digerivano la Road map di Öcalan. Certi analisti rimproverano a Demirtaş di non essersi distanziato dal Pkk e quindi di poter prestare il fianco alle accuse con cui Erdoğan ora lo ammanetta. Ma il co-segretario ha sempre affermato di seguire la propria strada, dettata dalla linea che i delegati del partito decidono di tenere. Certo, le cronache dopo il blitz poliziesco registrano l’esplosione di un carro bomba a Diyarbakır che ha procurato venti feriti civili. Reazione della guerriglia kurda o provocazione del Mıt?

 

Enrico Campofreda

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