Il Trans-Pacific Partnership (Tpp) è già stato firmato dai governi coinvolti (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Usa, Vietnam) ma attende la ratifica dei parlamenti che stanno prolungando assai l’iter necessario alla sua implementazione.
E nei giorni scorsi la corsa del Giappone a ratificare il Partenariato trans-Pacifico, il mega-accordo di libero scambio che punta a creare un ‘mercato comune’ unendo le due sponde dell'Oceano Pacifico, è stata bruscamente interrotta: il voto in Commissione parlamentare è stato bloccato in seguito alle richieste di dimissioni del ministro dell'Agricoltura Yuji Yamamoto che ha peccato di tracotanza rispetto alle opposizioni.
Si tratta di un problema non da poco conto, perché il primo ministro nipponico, il liberal-nazionalista Shinzo Abe, punta a far ratificare il trattato con Washington prima del voto alle presidenziali Usa della prossima settimana, in modo da mandare un messaggio forte tanto alla democratica Hillary Clinton che al repubblicano Donald Trump.
Secondo l'agenzia di stampa Kyodo, Abe e la sua coalizione (il Partito liberaldemocratico di centro-destra Jiminto e il partito buddista e centrista Komeito) stanno a questo punto valutando la possibilità di rinunciare all'ipotesi di far votare oggi in sessione plenaria l'accordo. E questo sarebbe un problema: se Trump e Sanders, anche se per motivi opposti, sono contrari all’accordo, la democratica Clinton, pur avendo lavorato alacremente per negoziare il Tpp quando era Segretario di Stato, è stata costretta a fare marcia indietro ed ora afferma di non sostenere l’accordo “nella sua forma attuale”.
La ratifica del Tpp da parte del parlamento di Tokyo prima del voto statunitense avrebbe mandato a Washington un forte segnale sull'indisponibilità del Giappone – la terza economia del mondo – a rinegoziare un accordo che ha richiesto anni di trattative per arrivare a una firma. "Se perdiamo tempo, questo potrebbe dare margine a richieste di rinegoziazione", aveva spiegato lunedì il capo del governo nipponico. E' soprattutto a Washington che il Tpp appare principalmente a rischio. Il presidente Barack Obama sperava di farlo approvare entro la fine del suo mandato, una possibilità ormai sfumata tanto che secondo alcune voci gli altri 11 paesi firmatari del Tpp, tra i quali il Giappone, possano procedere senza gli Usa.
A bloccare tutto è stato però Yamamoto. Il 18 ottobre scorso il ministro, partecipando a un'iniziativa del Jiminto, aveva suggerito al presidente della commissione competente della Camera bassa, Tsutomu Sato, di far passare "a forza" la legge ratifica. Una dichiarazione bollata come antidemocratica dall'opposizione. Ma Yamamoto, non contento, il giorno dopo ha pensato bene di tornare l'argomento affermando: "Mi hanno fatto quasi dimettere perché ho fatto una battuta". L’insistenza del ministro liberaldemocratico ha suscitato una rivolta nell'opposizione in commissione, che ha minacciato di presentare una mozione di sfiducia nei confronti del ministro, di cui chiede le dimissioni. E, nonostante le scuse trasmesse dal capo di gabinetto Yoshihide Suga ("Il ministro è profondamente dispiaciuto di quanto ha detto"), il voto che sembrava quasi certo è saltato.
Intanto, a godere dei passi falsi sull'accordo, è la Cina, che ha già incassato la rottura, per quanto parziale, delle Filippone con il tradizionale padrone americano e l’avvicinamento a Pechino. Il presidente filippino Rodrigo Duterte, nonostante la firma da parte del suo predecessore Benigno Aquino del Tpp, sta spostando verso Pechino l'asse delle sue alleanze. Un altro segnale è venuto poi dalla Malaysia, il cui primo ministro Abdul Razak in visita nei giorni scorsi in Cina ha firmato l'accordo per acquistare da Pechino quattro navi da guerra.
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