Il premier israeliano Netanyahu e il neo presidente Usa Trump ieri hanno tenuto a Washington, la loro prima conferenza stampa congiunta. Ribadendo il “legame indissolubile” fra Stati Uniti e Israele, Trump ha definito Israele un “simbolo di resilienza”, sottolineando le enormi sfide sulla sicurezza che deve affrontare. A una domanda sulla soluzione dei “Due popoli, due Stati” Trump ha risposto: “Uno stato o due stati, a me sta bene la soluzione che preferiscono le due parti”. Ha poi sottolineato che “entrambe le parti devono fare compromessi” e che preferirebbe che Israele “si trattenesse un po’ sugli insediamenti”. Netanyahu su questo si è limitato a rispondere: “Ne parleremo”
Dal canto suo, lo stesso Netanyahu ha affermato che: “Ci sono due prerequisiti per la pace. Primo, i palestinesi devono riconoscere Israele come stato ebraico. Secondo, in qualsiasi accordo di pace Israele deve mantenere il controllo della sicurezza su tutta l’area ad ovest del fiume Giordano”.
Ma la questione indubbiamente più rilevante emersa nel primo incontro tra Trump e Netanyahu appare indubbiamente la liquidazione della ipotesi “due popoli due stati” sulla quale da trenta anni (la dichiarazione di Algeri dell'Olp e poi gli accordi di Oslo) si è impantanata ogni seria azione tesa a dare uno stato ai palestinesi. Due popoli due stati è diventata ben presto una foglia di fico dietro cui si sono nascosti tutti coloro che – a destra come a sinistra, nel mondo come in Italia – hanno voluto evitare in ogni modo di entrare nel merito della questione palestinese.
Dopo anni di impantamento diplomatico e di annessioni israeliane di territori palestinesi sul campo, era evidente come questa prospettiva fosse ormai esaurita. Solo poche settimane fa proprio Netanyahu aveva parlato di “stato minimo” come massima concessione ai diritti nazionali del popolo palestinese.
Un editoriale del Jerusalem Post di una settimana, a firma di Ira Sharanski, anticipava la sortita di Trump scrivendo emblematicamente che “la classica “soluzione a due stati” ha poco senso e che forse non è un caso se i palestinesi ne hanno sistematicamente boicottato l’attuazione. E forse sarebbe un fattore di maggiore destabilizzazione. Meglio pensare a soluzioni alternative, come ad esempio una multi-comunità, che in buona misura è già una realtà di fatto anche se non viene né proclamata né riconosciuta in modo formale”.
Insomma si capiva che l'aria stava cambiando e non certo a favore dei palestinesi, andando a rimettere in discussione anche lo schema “due stati per due popoli” che fino ad oggi era stato ritenuto il minimo denominatore condiviso ma depotenziato concretamente da tutti i soggetti in campo.
In questi anni, in tutte le mobilitazioni e i dibattiti sulla lotta di liberazione palestinese, abbiamo più volte sottolineato come l'ipotesi “due popoli due stati” fosse ormai estenuata come prospettiva, senza alcun avanzamento sul campo né sul piano internazionale. Il Parlamento italiano è riuscito a votare tre mozioni diverse e contrapposte tra loro per negare questa soluzione. Unica eccezione è stato il Vaticano che ha aperto una ambasciata palestinese e pochissimi governi come la Svezia che hanno fatto altrettanto.
Adesso è stato Trump a liquidare il problema come irrilevante (uno stato, due stati, basta che si mettano d'accordo) e dunque a squarciare il velo di una ipocrisia dolorosa, soprattutto per il popolo palestinese.
Ma a nessuno però è sfuggito (neanche ai giornalisti presenti all'incontro) come l'approccio di Trump abbia messo in difficoltà anche Netanyahu. Se si liquida l'ipotesi dei due stati, è evidente che Israele – che identifica se stessa come stato ebraico – dovrebbe annettersi anche la popolazione palestinese, ben oltre i palestinesi che già vivono in Israele dall'occupazione del 1948 e che oggi sono cittadini con passaporto israeliano ma di serie B e C rispetto a quelli di origine ebraica. Una ipotesi che, sulla base della demografia, farebbe saltare il progetto di Israele come stato ebraico e dunque il cuore del progetto sionista.
Come è noto, la sinistra rivoluzionaria palestinese (in particolare il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), per tutto un periodo ha sostenuto la tesi dello “Stato Unico”, laico e multietnico per ebrei e palestinesi. Una ipotesi rigettata con timore dai sionisti ma anche da una gran parte della borghesia palestinese, dunque una ipotesi ampiamente minoritaria ma non per questo meno credibile di quella dei due stati per due popoli.
Alcuni anni fa venne dato alle stampe un libro interessantissimo del sociologo palestinese Hilal Jamil – “Palestina. Quale futuro?”, edizioni Jaca book – dal quale emergeva con forza l'impraticabilità della cosiddetta soluzione dei due Stati, che comporterebbe la concreta costituzione di uno Stato palestinese pienamente sovrano su di un territorio dotato di una minima coesione e con un livello accettabile di accesso alle risorse per i suoi abitanti.
Anni dopo a documentare la innocua velleità della posizione “due stati per due popoli”, era stato Ziyad Clot, negoziatore palestinese dimessosi nel 2008 a rendere pubblici i “Palestine Papers”, circa 1600 documenti degli inutili negoziati tra Israele e Anp raccolti nel libro “Non ci sarà uno Stato palestinese”.
Oggi la questione palestinese è stato rimessa sul piatto nelle condizioni di massima debolezza della sua causa. La battuta di Trump suona anche peggiore del goodbye all'Olp di Brzezinski alla fine degli anni Settanta. E' la conferma che gli attori principali dell'agenda internazionale considerano quella palestinese come una “seccatura” di cui liberarsi senza troppo clamore. E' ormai evidente che se i palestinesi vogliono una soluzione, devono tornare ad essere un problema per l'occupazione israeliana e per il mondo.
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