– Chiara sconfitta della May e del Partito Conservatore. La cinica chiamata alle armi per ottenere un forte mandato nelle negoziazioni per la Brexit, da parte di un primo ministro che, originariamente, aveva sostenuto il fronte del Remain, e aveva negato la necessità di elezioni anticipate, non funziona. In primis, a causa di una campagna elettorale imbarazzante e priva di contenuti, di cui si ricorderanno esclusivamente le molteplici e spregiudicate giravolte.
– Grande prova del vecchio leone socialista Jeremy Corbyn, e delle energie giovanili che è riuscito a mobilitare (su tutte, il raggruppamento “Momentum” che è stata la vera anima di questa campagna). Il Labour sfonda il 40% in termini di voto aggregato (livelli mai più raggiunti dopo l’era-Blair), e recupera seggi rispetto alla tornata del 2015. Paga, dunque, il programma elettorale incentrato su massicci investimenti in educazione, sanità e welfare, e sulla possibilità di una ripresa dell’intervento pubblico in settori strategici. In particolare, il Labour riesce nell’impresa di ricementare il proprio blocco di riferimento, pericolosamente frammentato dall’affare-Brexit, guadagnando posizioni sia nella cosmopolita Londra (che, nel referendum si espresse in massa per il Remain) che nel Nord post-industriale e proletario (in cui il vento del Leave riuscì a fare particolarmente breccia). Certo, buona parte del gruppo parlamentare laburista che approda a Westminster resta quello, assolutamente allineato ad impostazioni culturali liberali e centriste, che ha mosso una guerra continua, per due anni, al proprio leader. Il risultato rafforza la posizione di Corbyn; ma il rischio “imboscate” è tutt’altro che finito. Quanto durerà la Pax Elettorale, che, potere della necessità di confermare la cadrega, ha costretto i centristi del partito a mettere da parte, per un attimo, i propri istinti, è materia di dibattito.
– Morte definitiva di UKIP, che, raggiunto il proprio fine ultimo (la vittoria nel referendum), non riesce a reinventarsi, vedendo il proprio bacino elettorale prosciugato, prevalentemente dai Tories, ma con un significativo drenaggio anche da parte del Labour.
– Difficoltà estrema dei Liberal-Democratici. Ancora pesa la scellerata scelta di formare una coalizione coi Tories nel 2010, e la susseguente complicità nell’implementazione delle draconiane misure di austerità promosse dall’esecutivo di David Cameron. La formazione di Farron, la più euro-entusiasta del lotto, non riesce neppure nell’impresa di capitalizzare il voto dei Remainers; emblematico il caso di Nick Clegg, ex segretario del partito e vice-premier, che non riesce a confermare il proprio seggio nel collegio di Sheffield Hallam (sconfitto dai Laburisti).
– Sostanziale ritorno ad una dinamica fortemente bipartitica, in cui le uniche variazioni sul tema, dato l’infame sistema elettorale uninominale maggioritario di collegio, sono rappresentate dalle formazioni nazionaliste, tra le quali, comunque, si segnalano le difficoltà del Partito Nazionale Scozzese (che riporta un calo di venti seggi) e del Partito del Galles (che fa i conti con una inaspettata, fino a qualche mese fa, tenuta laburista).
A questo punto, lo scenario più probabile appare quello di una coalizione tra i Conservatori ed il partito della destra protestante dell’Irlanda del Nord (Partito Democratico Unionista, DUP), che, con i suoi 10 seggi, potrebbe consentire alla May di tirare a campare con un governicchio che, alle nostre latitudini, non esiteremmo a definire “balneare”. Una configurazione che, tuttavia, già provoca i primi mal di pancia eccellenti nelle fila conservatrici. George Osborne, ex Ministro delle Finanze nel gabinetto Cameron, ed attualmente direttore del quotidiano London Evening Standard già tuona: “Sarà un governo in carica, ma senza alcun potere, sottoposto al veto determinante del DUP. Le decisioni che determineranno il future di Londra saranno prese a Belfast. Una configurazione insostenibile, rispetto alla quale vigileremo con attenzione”.
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