Il caso della ragazza saudita Khulood, nickname utilizzato quando ha postato su Snapchat un video che la ritrae in minigonna e t-shirt, ha portato alla sua incarcerazione immediata e ripropone il problema dei diritti delle donne nella monarchia saudita.
“Non sono qui per dare lezioni a nessuno o dirvi cosa dovete fare e come – aveva dichiarato Trump nel suo discorso al summit in Arabia Saudita. Il presidente americano, senza fare alcun riferimento sui diritti umani violati o sulla ocndizione delle donne, ha ribadito che l’amministrazione americana intende sostenere i paesi alleati nella regione, Arabia Saudita in primis, purché questi sostengano gli interessi americani. La visita del presidente è stata “accompagnata” addirittura da alcune donne senza la abaya (velo integrale nero) o dalla diffusione di musica e concerti in giro per Riyadh. Segni di un cambiamento considerato “fittizio”, soprattutto nei confronti dei diritti delle donne.
Dopo un primo periodo di totale silenzio sui principali quotidiani europei, sta assumendo maggiore eco la campagna portata avanti dalla ONG Human Rights Watch e UN Watch riguardo all’elezione, lo scorso aprile, dell’Arabia Saudita come membro della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (UNCSW), l’organismo dell’ONU impegnato nella lotta per l’uguaglianza di genere e l’avanzamento delle donne. Una scelta in contrasto con l’attuale situazione delle donne saudite e, secondo il quotidiano inglese The Independent, “un’assurdità in contrasto con gli obiettivi e gli ideali della commissione”. Lo stesso quotidiano inglese riporta che la monarchia saudita occupa “il 141° posto su 145 riguardo alla libertà delle donne” secondo il Report sulla Disparità di Genere 2016 del Forum Economico Mondiale.
Rothna Begum, ricercatrice per la parità di genere di HRW, ha dichiarato in un recente report che è assurdo che proprio “l’Arabia Saudita sieda nella Commissione per la promozione dei diritti delle donne, mentre il suo governo continua in qualsiasi forma a discriminare il genere femminile”.
Le donne, fin dalla nascita, sono affidate alla figura del “guardiano”, in genere un maschio della famiglia (padre, fratello), prima, e il marito, poi, che limita le libertà della donna, impedendone di fatto ogni sua emancipazione. Secondo la dottrina wahhabita, la donna non può uscire da sola, non può guidare nessun mezzo, è autorizzata ad allontanarsi dalla sua residenza o dalla sua città solo con l’autorizzazione del “guardiano”. Divieti e proibizioni che toccano tutti gli aspetti della quotidianità. Le donne, infatti, devono indossare la abaya (velo nero) senza mostrare il viso o mostrarsi truccate, non possono cambiarsi o provare abito nei negozi, leggere riviste, studiare o lavorare, praticare sport alla vista di altri, andare dal medico e limitare qualsiasi tipo di conversazione con un uomo che non sia un parente.
Una tutela che dura tutta la vita. Il rapporto di Human Rights Watch dal titolo “Boxed In: Women and Saudi Arabia’s Male Guardianship System”, denuncia il sistema discriminatorio saudita.
Helen Clark, capo del Programma Sviluppo delle Nazioni Unite, ha giustificato l’ingresso dell’Arabia Saudita, sostenuto anche da numerosi paesi europei, come un tentativo per “supportare nella penisola araba coloro che stanno lavorando per cambiare la condizione delle donne”. Secondo tutti i movimenti femministi, illegali nel paese, i cambiamenti sono di sola facciata per limitare le proteste delle ONG impegnate nella tutela dei diritti delle donne. Hillel Neuer, direttrice di UN Watch, organizzazione che si occupa di monitorare l’attività delle Nazioni Unite, ha promosso una campagna contro l’elezione saudita ed ha dichiarato che “eleggere l’Arabia Saudita tra i membri che devono occuparsi di proteggere i diritti delle donne è come mettere un piromane a capo dei pompieri”. L’episodio di questi giorni ne è l’ennesima conferma.
Stefano Mauro
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