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Mauritania. Libero il blogger condannato a morte per apostasia

Lo scorso giovedì 9 Novembre la Corte Suprema di Nuadhibou, in Mauritania, ha emesso il suo verdetto: Cheick Ould Mohammed Mkhaitir è stato condannato a due anni di prigione ed al pagamento di un’ammenda per aver pubblicato un articolo giudicato “blasfemo”. L’uomo, che aveva già scontato quasi quattro anni, è stato  quindi rilasciato.

Il verdetto, nella sala del tribunale, è stato accolto da grida ed insulti nei confronti della corte. Numerose persone, giunte da diverse parti del paese, si erano ritrovate all’interno e all’esterno del tribunale per sostenere, infatti, la sua condanna a morte. Le stesse forze di polizia, il giorno successivo alla sentenza (venerdì) , hanno dovuto reprimere una manifestazione intorno alla principale moschea della capitale, Nouakchott, con numerosi manifestanti che protestavano contro le autorità colpevoli “di aver scelto l’occidente e non la difesa della religione e del Profeta”.

Il trentenne blogger era incarcerato dallo scorso gennaio 2014 ed era stato condannato a morte per “apostasia”, la prima nel paese dall’indipendenza nel 1960. Circa quattro anni fa, infatti, le autorità mauritane lo avevano arrestato dopo che il quotidiano online Aqlame aveva pubblicato un suo articolo che criticava “l’utilizzo della religione per giustificare alcune discriminazioni nella società mauritana”, dove esiste ed è tutt’ora tollerata la schiavitù.

Qualche mese più tardi, il 21 Aprile 2016, la corte d’appello aveva confermato la sentenza non più per “apostasia”, ma per “miscredenza” – reato considerato meno grave –  in virtù del pentimento da parte di Mkhaitir e rinviando il suo dossier alla Corte Suprema. Lo stesso Forum degli Ulema, creato nel 2014 per la difesa dei costumi e del Profeta, aveva richiesto la morte del blogger considerato “apostata e blasfemo”.

La condanna a morte aveva provocato un’alzata di scudi ed una campagna di pressioni da parte della Organizzazioni per i diritti umani. Amnesty International e Human Right Watch (HRW) avevano più volte lanciato appelli e  richiesto una sospensione della sentenza. “Il condannato era un detenuto per reati d’opinione” – ha  dichiarato dopo la sentenza, Sarah Leah Whitson, direttrice della divisione di Amnesty per l’Africa – “ed è  stato incarcerato esclusivamente per aver affermato il suo diritto alla libertà di espressione e per essersi opposto alle discriminazioni attraverso un articolo su un blog”.

Secondo HRW il clima è talmente teso che, in questi anni, numerosi difensori dei diritti civili e sostenitori di Mkhaitir hanno ricevuto minacce di morte.  Persecuzioni e intimidazioni anche per i suoi genitori che sono dovuti fuggire dal paese ed hanno trovato rifugio in Francia. Di positivo in questa vicenda c’è solamente la libertà e la salvezza del giovane blogger perché questo episodio è, purtroppo, la punta di un iceberg per ciò che concerne i diritti umani inerenti la sfera religiosa, principalmente nei paesi musulmani.

Secondo i dati contenuti nel Rapporto 2016 di “Nessuno Tocchi Caino” sulla pena di morte nel mondo, infatti, la situazione legata ai reati di opinione o riguardanti la sfera religiosa è molto grave. In alcuni paesi islamici, ad esempio, «convertirsi dall’Islam ad un’altra religione, essere ateo oppure offendere il profeta Mohammad è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale». Il reato di apostasia è punito con la morte in 12 Paesi musulmani: Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria (solo negli stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Yemen.

“L’aumento e la diffusione del credo wahabita (visione radicale e tradizionalista dell’Islam di matrice saudita) in molti paesi musulmani ne è la diretta causa” – ha recentemente affermato sulla questione Mohammad Mahmud Ould Mohamedu, mauritano e  docente universitario esperto di Islamismo e Radicalismo all’Università di Ginevra. “Episodi simili ed una crescita delle condanne per blasfemia in paesi tradizionalmente più secolarizzati” – ha concluso il docente –“denotano una deriva del wahhabismo che, ovviamente, non è il vero Islam fino ad arrivare alle esecuzioni sommarie per «reati» legati alla religione attuate da gruppi estremisti islamici come, ad esempio, Al-Shabaab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, i Talebani in Afghanistan e l’ISIS in Iraq ed in Siria”.

 

Pubblicato anche su NenaNews

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