Gli osservatori stanno ancora analizzando motivi e possibile evoluzione politica nella Novorossija, dopo il braccio di ferro tra Presidente e Ministro degli interni della LNR che la scorsa settimana ha portato alle dimissioni del primo, che, i fatti più appariscenti delle ultime quarantotto ore sono già divenuti altri.
Da un lato, il fallimento dell’offensiva ucraina nell’area di Gorlovka e, su scala ben più vasta, l’orientamento degli esperti di The National Interest, secondo cui Mosca, “basandosi sull’esperienza ucraina”, avrebbe deciso di far perno sulle forze di terra nella contrapposizione militare all’Occidente. Una contrapposizione che, stando alle notizie pressoché quotidiane – il tema è da tempo all’ordine del giorno di talk show televisivi, di interventi giornalistici e di pubblici interventi dei massimi leader politici – su ogni tipo di media, è vista come preludio a una guerra vera e propria.
Dopo il rinvenimento, tre giorni fa, da parte delle milizie della LNR, dei cadaveri di tre sabotatori ucraini e di un loro commilitone ferito, tutti vittime di un campo minato in prossimità del villaggio di Frunze (una cinquantina di km a ovest di Lugansk), è stata la volta della DNR a trovarsi di fronte all’ennesimo fallito attacco ucraino, questa volta in grande stile e su un fronte abbastanza ampio.
L’offensiva era pianificata lungo la direttrice tra Frunze, appunto, nella LNR e Gorlovka, un centinaio di km verso sudovest, nella DNR. Ma è abortita per una “fuga di informazioni”, di cui sarebbe stato responsabile lo stesso capo di Stato maggiore delle forze ucraine, Viktor Muženko; o meglio, i suoi addetti stampa. A quanto pare, nella foga di reclamizzare a tutti i costi l’attività del boss, questi avrebbero pubblicato sul sito del dicastero alcune foto della riunione dello Stato maggiore, da cui l’intelligence delle milizie avrebbe estrapolato la mappa delle operazioni pianificate.
D’altronde, nessuno può escludere che lo stesso conflitto interno ai vertici della LNR, potesse esser utilizzato dai Servizi ucraini per una massiccia introduzione a Lugansk del 3° reggimento della GUR (l’intelligence militare) ucraina, facilitato dall’effettiva infiltrazione di spie ai massimi livelli della Repubblica.
Ancor meno da escludere un indiretto intervento yankee nella questione della “prova di forza” a Lugansk, conclusasi – “ciò fa onore alle milizie”, scrive la maggior parte dei media russi – senza alcuno spargimento di sangue e con la onorevole presa d’atto del Presidente Igor Plotnitskij dell’ulteriore insostenibilità delle proprie posizioni e le conseguenti dimissioni.
Un intervento yankee che ha senza dubbio foraggiato la rete spionistica filo-ucraina; che continua a introdurre istruttori militari ai vertici di esercito e battaglioni neonazisti ucraini; che invia gruppi di “osservatori” militari in prima linea; che ora, come riporta il Washington Post, si oppone ufficialmente, per bocca del rappresentante statunitense Kurt Volker, alla presenza russa nella prospettata missione ONU nel Donbass. Un intervento che si esplicita nelle analisi pubblicate da The National Interest circa lo sviluppo, da parte russa, dei sistemi d’arma terrestri che, sulla base “dell’esperienza in Ucraina”, potrebbero già ora indirizzare l’industria bellica alla loro produzione in serie.
Secondo la rivista americana, il piano di armamenti russo 2018-2027 punterebbe proprio in quella direzione, privilegiando gli investimenti in armi di terra, a partire dai carri T-90 e T-14, ai blindati “Kurganets-25” e “Bumerang”. Parallelamente, Mosca continuerebbe la produzione di sistemi missilistici e d’artiglieria, sostituendo, ad esempio, i vecchi obici semoventi “Msta” coi nuovi “Koalitsija”.
Innovazione anche nei sistemi di intercettazione, rilevamento e guerra elettronica. The National Interest sostiene che i sistemi d’arma tradizionali sarebbero sufficienti affinché Mosca possa contenere i propri vicini dello spazio postsovietico; mentre, per far fronte a Cina e Nato, dovrebbe basarsi sull’arsenale nucleare.
Ed ecco che Interfax scrive che Vladimir Putin avrebbe sollecitato la grande industria, sia privata che statale, a orientarsi su “binari militari”. Nel corso di un incontro sulle questioni del complesso militare-industriale, egli avrebbe detto che “La capacità di aumentare rapidamente e nel momento necessario la produzione per la difesa, è una delle principali condizioni per garantire la sicurezza militare dello stato. Tutte le imprese strategiche e semplicemente grandi dovrebbero esservi preparate”.
Nel biennio precedente, Putin aveva già dato indicazioni per la “modernizzazione degli impianti di produzione, la formazione di riserve materiali e assicurare il rapido trasferimento di truppe”. Che quelle del presidente russo non fossero indicazioni di circostanza, lo testimonia anche, indirettamente, il volume di export russo di armamenti, di cui lo stesso Putin aveva parlato un mese fa e che, a fine anno, dovrebbe superare i 15 miliardi di dollari, stante un portafoglio di commesse tra gennaio e settembre 2017 di oltre 45 miliardi. Accanto alle grosse commesse già da tempo avviate, come le quattro divisioni del complesso missilistico S-400 “Triumf” alla Cina, spiccano ora contratti quali quelli per S-400 alla Turchia, sistemi razzo “Iskander-E” all’Armenia, blindati “Terminator-2” e “Iskander-E” all’Algeria, caccia Su-30SM al Kazakhstan e Su-30K allo Sri Lanka, ecc.
Ma, come detto, ormai da tempo l’argomento guerra è all’ordine del giorno praticamente su tutti media. Tanto che l’osservatore Sergej Aksenov scriveva appena quattro giorni fa su Svobodnaja Pressa che “Putin esorta i russi a esser pronti alla guerra”.
Oltre alle parole di Putin citate da Interfax, concreti indizi sarebbero le sempre più frequenti esercitazioni militari – pur in risposta alla ininterrotte manovre NATO ai confini russi, terrestri e marittimi – la nuova legge sullo “Stato di guerra”, che riguarda la difesa territoriale contro sabotaggi e diversioni, la subordinazione al Ministero della difesa, in caso di conflitto, di Governatori, Servizi di sicurezza e polizia. Così come lo “spostamento in avanti” della linea di un ipotetico fronte, con l’acquisizione di basi lontane dai confini geografici: la scorsa settimana, a Soči, Vladimir Putin e il Ministro della difesa Sergej Šojgu hanno discusso con il presidente Omar al-Bashir la possibilità della costruzione di una base militare russa in Sudan.
Vero è che Aksenov riferisce di commenti sarcastici all’esortazione presidenziale, tra cui quella “Ma davvero Vovan pensa che la gente con salari da fame andrà in guerra per i miliardi offshore suoi e della sua banda?”. La maggior parte degli osservatori, sembra però prendere abbastanza sul serio le parole di Vladimir Vladimirovič, ponendo però interrogativi sull’effettiva volontà della grande industria privata a orientarsi alla produzione bellica: un passaggio da molti ritenuto come minimo in ritardo di dieci anni e, comunque, poco compatibile con l’economia russa offshore, con un’esportazione di capitali che solo nell’ultimo anno si dice triplicata. E, comunque, il politologo Aleksandr Khramčikhin scrive su Russkaja Vesna che i russi dovrebbero davvero prepararsi a una guerra su vasta scala: anche solo per il fatto che sempre più spesso si parla del concetto USA di “rapido attacco globale”: un attacco nucleare portato nel giro di mezz’ora da velivoli ipersonici (5 volte il Mach 1) e concentrato inizialmente proprio sulle forze atomiche russe. Un attacco che, per evitare colpi di ritorsione, deve distruggere simultaneamente il 100% delle forze nemiche.
Quali che siano i pericoli (certamente non astratti e purtroppo nemmeno remoti) di un conflitto che, coinvolgendo le due massime potenze nucleari, non potrebbe che essere planetario, colpiscono la determinazione, la precisione, la consapevolezza dell’effettivo pericolo odierno, con cui i media russi espongono al largo pubblico gli aspetti e i compiti che la difesa del paese (quanto sia possibile arretrare le linee difensive; quanto, al contrario, il loro avanzare sia il risultato necessario del sempre più pericoloso avvicinarsi di postazioni missilistiche e forze di terra NATO ai confini occidentali, assieme al dispiegamento dei THAAD americani in estremo oriente, ecc.), che contrastano in maniera stridente con l’allegra spavalderia di chi, in ottemperanza agli ordini di Washington e di Bruxelles, si dà allegramente a propagandare la necessità di rimpinguare, coi soldi delle masse italiane, le casse dei complessi militari yankee e ad allargare lo schieramento di sempre nuovi mezzi di distruzione nucleare nel nostro paese.
Quasi a volerci far dimenticare, nell’euforia di portare la “civiltà” a sud e a est a bordo di F-35 e cacciatorpediniere, degli ordigni stivati in casa.
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