Gli Stati Uniti riconoscono implicitamente Gerusalemme come capitale di Israele. Donald Trump dà seguito agli annunci dei giorni scorsi e comunica al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che trasferirà l’ambasciata statunitense da Tel Aviv alla Città santa. Una provocazione imposta dal suo staff ultrasionista (Jared Kushner, senior advisor del Presidente degli Stati Uniti d’America, è il marito della figlia Ivanka, con cui ha avuto ha tre figli, è un esponente di punta dell’ala sionista integralista della comunità ebraica statunitense) . Nel marzo 2017 Trump lo ha messo a capo del neo-istituito Office of American Innovation (OAI) della Casa Bianca, ma ora rischia di essere travolto dalla collaborazione dell’ex consigliere strategico – il generale Flynn – con il procuratore speciale che indaga sul RussiaGate.
AGGIORNAMENTI:
ore 12:30 Consigliere diplomatico del presidente Abbas: “Interromperemo i contatti con gli Usa se Gerusalemme sarà riconosciuta capitale d’Israele”
Il consigliere diplomatico del presidente Abbas, Nabil Sha’ath, ha detto che la leadership palestinese “interromperà i contatti” con gli Stati Uniti se il presidente americano Trump riconoscerà Gerusalemme come capitale israeliana.
Un ufficiale israeliano, intanto, ha risposto poco fa alla minaccia di Erdogan di tagliare le relazioni con lo stato ebraico qualora la Città santa dovesse essere dichiarata da Trump capitale d’Israele. “Gerusalemme è stata capitale ebraica per 3.000 anni e capitale d’Israele per 70, piaccia o meno questa cosa a Erdogan”.
ore 12:15 Erdogan: “Status Gerusalemme linea rossa: pronti a tagliare le nostre relazioni con Israele”
Lo status di Gerusalemme è una “linea rossa” per i musulmani e una sua modifica porterà la Turchia a tagliare le sue relazioni diplomatiche con Israele. A dirlo è stato oggi il presidente turco Erdogan.
Contrario ad un possibile riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale d’Israele è anche il segretario della Lega araba Aboul Gheit. Aboul Gheit, riferisce l’agenzia Mena, ha detto oggi che gli Usa non dovrebbero prendere nessuna misura “pericolosa” che potrebbe modificare lo status legale e politico della Città santa perché ciò potrebbe “avrebbe ripercussioni nella regione”.
Duro contro i paesi arabo-islamici che cooperano con lo stato ebraico è stato oggi il presidente iraniano. In un discorso televisivo, Rohani ha accusato gli “stati islamici di aver “rivelato spudoratamente la loro vicinanza al regime sionista”. “Non ho dubbi – ha aggiunto – che i musulmani del mondo non permetteranno che questo complotto sinistro dia i suoi frutti”.
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della redazione
Roma, 5 dicembre 2017, Nena News – L’amministrazione statunitense ha annunciato ieri di non aver ancora stabilito se trasferirà o meno l’ambasciata Usa a Gerusalemme, nonostante la data limite per prendere una decisione in merito sia stata ormai superata. “Nessun provvedimento sarà preso oggi. Decideremo nei prossimi giorni” ha detto laconicamente un portavoce della Casa Bianca.
Secondo la legge americana, essendo andati oltre i termini legali per firmare il rinvio, potrebbe essere ora il Congresso Usa a imporre al presidente di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme. Non solo: il Congresso potrebbe anche tagliare i finanziamenti del Dipartimento di Stato se l’amministrazione americana non dovesse rispettare quanto previsto nell’“Atto dell’ambasciata di Gerusalemme” del 1995 che impone lo spostamento nella Città santa della sede diplomatica americana. Tuttavia, al momento, lo scenario più probabile è che i repubblicani (maggioranza al Congresso) diano qualche altro giorno di tempo a Trump per prendere la sua decisione finale sulla questione. Le opzioni che ha il presidente sono due: o dare luce verde al trasferimento dell’ambasciata rispettando così quanto ha più volte annunciato in campagna elettorale. O, scenario più concreto, rinviare la discussione di altri sei mesi come hanno fatto negli ultimi due decenni tutti i presidenti a stelle e strisce.
L’esitazione statunitense potrebbe essere stata in qualche modo influenzata anche dalle dichiarazioni di diversi attori mondiali e regionali. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron avrebbe espresso a Trump la sua “preoccupazione” per l’eventuale mossa unilaterale di Washington di dichiarare Gerusalemme capitale d’Israele. Secondo il leader francese, il suo status “deve essere affrontato nei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi che devono dare vita a due stati, Israele e la Palestina, che vivano in pace e sicurezza l’uno a fianco dell’altro con Gerusalemme come capitale”.
Dopo giorni di silenzio, ieri ha parlato anche l’Arabia Saudita. Riyadh, per bocca dell’ambasciatore saudita Khalid bin Salman, ha detto che qualunque annuncio americano sullo status della città senza un accordo definitivo sulla questione israelo-palestinese danneggerà il processo di pace e aumenterà le tensioni regionali. “L’Arabia Saudita – ha sottolineato – continua a sostenere il popolo palestinese e ciò è stato riferito all’amministrazione Usa”. Le dichiarazioni di Macron e di Khalid bin Salman erano state anticipate domenica da quelle dei ministri degli esteri egiziano e giordano durante i loro incontri con il Segretario di stato Usa Rex Tillerson.
L’annuncio su Gerusalemme è previsto per domani: se Trump sembra “cedere” da un lato (e per il momento) sull’affair ambasciata, appare infatti molto intenzionato a riconoscere la città come capitale dello stato ebraico. Incluso il suo settore orientale (quello arabo) occupato dall’esercito israeliano nel 1967 e rivendicato dai palestinesi. La questione sarà al centro della riunione di “emergenza” convocata per oggi dalla Lega araba. Un simile vertice è stato convocato anche dall’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC).
Gli ufficiali palestinesi di Ramallah hanno ribadito in questi giorni come questo riconoscimento metterebbe fine ai negoziati di pace. Il portavoce del presidente Abbas, Nabil Abu Rudeinah ha dichiarato sabato che una eventuale decisione di Trump in tal senso rappresenterebbe uno sviluppo pericoloso che destabilizzerebbe la regione mediorientale. Per Husam Zomlot dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) tale atto sarebbe “il colpo di grazia alla soluzione a due stati” e avrebbe “conseguenze catastrofiche”. Dal canto suo, invece, Hamas ha invocato “una nuova Intifada” per fermare questa “cospirazione”. Abu Mazen e il leader islamista, Ismail Haniye, si sono trovati d’accordo sulla necessità di tenere una manifestazione a Gerusalemme che “unifichi gli sforzi del popolo palestinese”.
La Giordania, che si proclama custode dei luoghi santi islamici di Gerusalemme, con il suo ministro degli esteri Ayman Safadi ha parlato di “pericolose conseguenze” politiche qualora l’annuncio di Trump dovesse essere implementato. Incontrando a Washington domenica il Segretario alla difesa Usa James Mattis, il re giordano Abdallah ha spiegato che questa decisione americana rafforzerà i gruppi terroristici attivi in Medio Oriente e farà collassare l’iniziativa di pace a cui sta lavorando l’amministrazione Trump.
Quel che non spiega il re è però in che cosa consista questa “iniziativa di pace” trumpiana. L’annuncio di Gerusalemme come capitale d’Israele, infatti, rientra in un piano più grande previsto dall’amministrazione Usa con cui gli americani provano a ridisegnare il Medio Oriente in chiave anti-Iran attraverso una stretta alleanza tra Israele e Arabia saudita. In tale scenario, la questione palestinese diventerebbe ancora più marginale rispetto al conflitto contro il “nemico sciita”.
La normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e i paesi arabi è ormai sempre più alla luce del sole. La monarchia saudita nega però qualunque “normalizzazione” con Tel Aviv e smentisce le ultime rivelazioni del New York Times secondo cui il principe ereditario Mohammed bin Salman avrebbe chiesto al presidente palestinese Abbas di proclamare il villaggio di Abu Dis (nel governorato di Gerusalemme, oltre il Muro costruito da Israele in Cisgiordania) capitale di un futuro stato di Palestina in cambio di cospicui aiuti finanziari. Una proposta simile fu avanzata nel 1995 proprio dallo stesso Abbas e dall’ex ministro israeliano Beilin. Abu Dis, si disse allora, sarebbe diventata la “capitale temporanea” della Palestina. La realtà avrebbe raccontato poi un’altra storia, eppure ad Abu Dis i lavori di costruzioni del Parlamento palestinese furono davvero avviati.
da Nena News
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