In questi giorni ricorre il quarto anniversario della guerra del Donbass, un conflitto che ancora non si è risolto e che ha provocato 12mila vittime. Da allora le popolazioni di quella regione vivono sotto assedio, con i bombardamenti e l’embargo economico.
Sul terreno è presente una missione OSCE che prova (vanamente) a far rispettare gli “Accordi di Minsk” l’unico tentativo di risoluzione diplomatica della crisi. Il limite principale di detta missione è che prevede solo degli “osservatori” (che hanno cioè un ruolo passivo) e non una forza d’interposizione. Infatti, anche qualora decidessero di fare onestamente il loro lavoro, gli osservatori OSCE non possono nulla per fermare le aggressioni dell’esercito di Kiev. La missione OSCE si limita a registrare le violazioni dell’intesa e a riportarle in un report periodico che nessuno prende in considerazione.
Questa empasse (che costa vite umane e sofferenze) dura da troppo tempo e in molti chiedono di trovare al più presto una soluzione. Allo stato attuale si possono prefigurare due vie d’uscita. La prima è che il conflitto (che ora è a bassa intensità) deflagri nuovamente in un rinnovato livello di violenza. Si tratta di uno scenario che potrebbe rimettere in discussione tutti gli assetti della regione ma che necessariamente costerà un numero enorme di vite. Pertanto, in questo frangente è molto più auspicabile la seconda via d’uscita: il dispiegamento di un contingente ONU.
Non pare verosimile che una forza d’interposizione delle Nazioni Unite possa garantire la pace, ma probabilmente potrà fermare la guerra. Ciò sarà possibile in quanto aiuterà a far rispettare gli “Accordi di Minsk”.
Questo contingente dovrebbe svolgere funzioni di peacekeeping frapponendosi alle parti belligeranti. Potrebbe quindi proteggere i civili dai continui attacchi delle forze armate ucraine (tanto quelle persone che vivono nel territorio delle Repubbliche Popolari, quanto quelle nelle zone controllate da Kiev che subiscono continue vessazioni da parte dei soldati).
Oltretutto, questa forza internazionale potrebbe vigilare sugli armamenti impiegati, potrebbe cioè vedere quali tipo di aiuti militari l’Ucraina riceve dall’estero. Il buonsenso (e in linea puramente teorica, anche il Diritto Internazionale) prevede di non rifornire di armi quei paesi che poi le usano contro i civili.
Sembrerebbe che le parti in causa sarebbero sostanzialmente concordi nell’accettare la presenza di questa forza d’interposizione. Al momento il nodo da sciogliere rimane quello del luogo in cui far operare il contingente internazionale. Infatti le Repubbliche Popolari del Donbass lo vorrebbero schierato lì dove serve, cioè sulla linea di contatto (il “fronte”); l’Ucraina invece lo vorrebbe inviare dove non avrebbe alcuna utilità ai fini della risoluzione del conflitto, cioè al confine tra le Repubbliche Popolari e la Russia. Va da sé che questa ipotesi sarebbe un inutile e costosissimo teatrino.
Dispiegando una forza d’interposizione lungo la linea di contatto si ridurranno gli scontri e di conseguenza il numero di uomini necessari per controllare i confini da parte delle Milizie Popolari. Queste ultime potranno quindi dedicare delle energie ad altre attività, come quelle di carattere politico. Le migliori forze rivoluzionarie sono impegnate al fronte da quattro anni, danno un contributo spassionato e spesso pagano dei prezzi altissimi. Se queste forze potessero veder alleggerite le responsabilità di carattere puramente militare, potrebbero svolgere il loro ruolo all’interno della società, anche arginando le forze della restaurazione e tutelando il progetto politico originario delle Repubbliche Popolari.
Stando così le cose, può valere la pena di tentare di coinvolgere attivamente sul terreno la comunità internazionale.
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