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Sanzioni (o guerra) all’Iran? Un disastro economico per l’Italia

Venti di guerra soffiano sempre più insistenti sull’Iran: da Trump e gli Stati Uniti ad Israele all’Arabia Saudita, sono diversi i soggetti che vedrebbero con piacere il paese degli Ayatollah diventare il nuovo nemico pubblico mondiale, il “cattivo” da aggredire ed azzerare come è stato fatto con l’Iraq di Saddam Hussein, con la Libia di Gheddafi e come si è provato a fare con la Siria di Assad e con la Corea del Nord. Gli ultimi due si sono rivelati un po’ più “coriacei” al processo di democratizzazione imposta che gli USA e i suoi alleati (quindi anche noi): parliamo ovviamente della ricetta fatta di bombe, droni, invasioni, devastazioni e migliaia di morti.

Più coriacei – tra l’altro – proprio perchè o in grado di difendersi da soli (la Corea del Nord e il suo arsenale nucleare, piccolo ma comunque capace di suscitare timori), o perchè sostenuti da potenze militari (la Siria e la Russia): insomma, avere un piccolo arsenale nucleare o avere un amico che ce l’ha è utile ad evitare di finire in guerra.

A parte questa considerazione, che pare banale ma in realtà non lo è per niente, è interessante sottolineare un aspetto della vicenda di cui non si parla molto.

Per l’Italia il ritorno dell’Iran dalla parte dei “buoni” è stato un grande affare, e nel caso in cui si tornasse indietro, e gli ayatollah tornassero ad essere cattivi e degni di far parte dell’ Asse del Male (ricordate? Iraq, Iran e Corea del Nord, secondo la visione di George Bush), si parlerebbe senza mezzi termini di un grande danno economico.

Nel 2011, secondo i dati riportati dall’ufficio statistico dell’Ue a Bruxelles, il valore degli scambi commerciali tra Iran ed Italia aveva raggiunto il livello considerevole di circa sette miliardi di dollari: il nostro paese era il primo partner commerciale dell’ Iran all’interno dell’ UE

Con l’embargo e le sanzioni del 2012 il volume di affari crolla, anche se non viene meno del tutto: alcune importanti realtà commerciali italiane come Edison e Fiat proseguono ad avere rapporti con l’Iran.

A seguito dell’accordo sul nucleare del 2015 a partire da gennaio 2016 sono ripartiti in maniera strutturale gli accordi, tanto è vero che nel biennio 2015/2016 il volume degli scambi tra Iran e Italia e’ aumentato del 200%.

Ancora più significativa l’intesa stipulata recentemente tra Invitalia Global Investment e le banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank: un accordo quadro di finanziamento che stabilisce condizioni generali per accordi in ambito energetico, metallurgico, infrastrutturale, chimico e petrolchimico.

Comunicato con una nota dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’accordo (Master Credit Agreement) prevede un importo complessivo fino a 5 miliardi di euro: Invitalia presterà soldi alle due banche iraniane le quali erogheranno prestiti a soggetti pubblici e privati per finanziare commissioni alle imprese italiane.

Si tratta solo di una parte del progetto di finanziamento complessivo che è di circa 27 miliardi di dollari, ed è frutto di una serie di negoziazioni partite nel 2016.

Un simile accordo, certamente di grande portata, è tra quelli previsti nel Joint Comprehensive Plan of Action, l’intesa sul nucleare raggiunto nel 2015 tra Iran e Usa, Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito. Esattamente quello che ora viene messo in discussione da Trump e che tanto fece infuriare Israele ed Arabia Saudita.

Che poi non è l’unico accordo di questo tipo stipulato con gli iraniani: ne sono stati conclusi di simili dalla Corea del Sud, dall’Austria, dalla Danimarca e dalla Cina.

Ma anche Francia e Germania hanno una storia di collaborazione commerciale con l’Iran: fino al 2012, se l’Italia era il primo partner, Parigi e Berlino occupavano il secondo ed il terzo posto.

Secondo alcune previsioni nel 2019 le esportazioni italiane verso l’Iran potrebbero toccare cifre importanti, tra i 2,5 e i 2,6 miliardi di euro: prospettiva messa a rischio dall’accelerazione imposta dall’amministrazione Trump in funzione anti-iraniana.

Dall’ipotesi del ritorno alle sanzioni fino a quella – malaugurata – del ricorso ad una opzione militare, dal punto di vista economico per l’Italia le notizie sono pessime. Per l’Italia e non solo: come abbiamo visto i paesi in Europa interessati a salvaguardare i rapoorti con l’Iran sono diversi, e probabilmente questo è il principale motivo per cui al momento l’UE – o meglio i paesi europei firmatari dell’accordo – non stanno seguendo Trump .

Anche perchè paesi come la Cina e la Russia, durante gli anni di embargo e sanzioni, hanno proseguito a collaborare commercialmente con l’Iran, e sono riusciti a penetrare nel tessuto socio-economico del Paese: un eventuale ulteriore stop imposto all’Italia lascerebbe terreno a chi c’è, e le occasioni di fare affari si ridurrebbe di molto.

A pagarne il conto sarebbero in particolare le piccole e medie imprese, che sono quelle a cui maggiormente faceva riferimento l’accordo quadro tra Invitalia e le banche iraniane.

Insomma, c’è un ampio settore dell’economia italiana che guarda con fastidio e preoccupazione a quanto sta minacciando Trump: il problema, come sempre, è la sudditanza che i nostri governi hanno sempre dimostrato nei confronti degli Stati Uniti e – in questo caso – anche di Israele (che pare abbiano reagito male al recente accordo di finanziamento).

Chissà che, toccando il portafogli, avvenga il miracolo e la nostra classe dirigente acquisti un po’ di coraggio ed indipendenza.

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