Su Contropiano, è stata ricordata più volte la vicenda dei cosiddetti “fratelli dei boschi” – per lo più ex legionari baltici, volontari delle Waffen SS, responsabili dei massacri di migliaia di civili – attivi in tutti Paesi baltici dalla fine della guerra fino a buona parte degli anni ’50, quando furono debellati dagli organi di sicurezza sovietici. Pochi anni fa, nella città di Ile, in Lettonia, al confine sudoccidentale con la Lituania, è stato loro dedicato anche un monumento, inaugurato alla presenza delle più alte cariche militari e civili.
In Lituania, alcuni di tali “fratelli”, o loro “congiunti” della cosiddetta Unione dei partigiani per la libertà della Lituania, sono stati elevati a eroi nazionali. Dopo la guerra, uno dei loro massimi esponenti, Adolfas Ramanauskas (Vanagas), era stato riconosciuto colpevole di aver decretato le condanne a morte di oltre ottomila civili lituani, bambini compresi: quasi la metà dei circa ventimila lituani assassinati per “collaborazione col potere sovietico”, mentre pare siano stati oltre venticinquemila i lituani uccisi nel dopoguerra dalle bande nazionaliste.
Oggi, però, il crimine di Vanagas non è più riconosciuto tale dalle autorità di Vilnius, tanto che lo scorso novembre, nel solco del liberal-europeista “sangue dei vinti”, il Parlamento aveva decretato il 2018 “anno dei fratelli dei boschi”. E’ così che il pubblico ministero di Klaipeda (centro costiero teatro di manovre annuali della NATO) ha aperto un’inchiesta nei confronti di un consigliere municipale, reo di aver espresso dubbi sull’idea del sindaco di apporre una targa a ricordo di Vanagas e, per cumulo di malefatte, reo anche di essere il presidente della locale Unione dei russi di Lituania. “Legittimamente”, il Sindaco ha avviato la procedura per revocare a tal “malvivente” il mandato di consigliere.
Per parte sua, il Comitato russo di Indagine ha promosso una causa giudiziaria contro una serie di procuratori e giudici lituani che, dal 2006, continuano a perseguire persone per i 13 morti e quasi mille feriti negli scontri del gennaio 1991 a Vilnius, che costituirono una sorta di prova generale di ciò che sarebbe accaduto a Mosca nell’agosto successivo e l’ouverture del disfacimento dell’URSS. Si tratta principalmente di una sessantina di ex militari sovietici – all’epoca dei fatti la Lituania, nonostante le dichiarazioni unilaterali, faceva ancora parte dell’URSS – ora cittadini russi, alcuni dei quali, residenti in Lituania, sono stati condannati retroattivamente a pene detentive, sulla base del codice penale adottato nel 2011.
Il Ministero degli esteri lituano si è detto scandalizzato dal passo di Mosca, ma, osserva Aleksandr Zapolskis su iarex.ru, dal momento che cittadini “russi vengono perseguiti, ciò dà alla Russia (in quanto considerata ‘erede’ di fatto dell’URSS) pieno diritto legale a indagare sugli scontri del 1991 alla torre televisiva di Vilnius e difendere gli accusati”.
D’altronde, nota rubaltic.ru, nessuno si è mai preoccupato di interrogare il capo dell’ala militare del movimento nazionalista “Sajudis”, Audrjus Butkevicius, dopo che anni fa, a Londra, aveva dichiarato che anche franchi tiratori di “Sajdius” avevano sparato sulla folla a Vilnius, nel 1991, in un’anticipazione di ciò che si sarebbe visto nel 2014 a majdan. Poi, rientrato in Lituania, Butkevicius fu condannato a 5 anni per corruzione, facendo calare il silenzio sulla sparatoria alla torre televisiva.
Dopodiché il Parlamento adottò emendamenti al Codice penale, che prevedono 5 anni di carcere per la messa in dubbio della narrazione ufficiale sulla colpevolezza dei reparti “Alfa” sovietici nella strage del 1991 e la Procura generale ha qualificato quei fatti come “crimini contro l’umanità”, senza termini di prescrizione. Una qualificazione peraltro scarsamente riconosciuta: l’Austria, ad esempio, nel 2011 ha negato l’estradizione in Lituania dell’ex comandante del gruppo “Alfa”, Mikhail Golovatov, spiegando che la richiesta lituana era motivata politicamente.
Scalpore aveva suscitato anche, nota rubaltic.ru, il “caso Paletskis”, l’ex vice sindaco di Vilnius, che per poco non fu arrestato per la frase “i nostri hanno sparato sui nostri”, a proposito dei fatti del 1991. Nel 2013 fu sospeso il Primo Canale per un reportage in cui testimoni riferivano di aver visto cecchini sul tetto della torre della televisione il 13 gennaio 1991.
Non è da meno sulla strada euroliberale l’intelligence estone, il cui direttore, Mikk Marran, chiama da tempo i cittadini all’accortezza contro la quinta colonna costituita da una rete di “agenti d’influenza” del Cremlino: in pratica, si tratta di denunciare chiunque parli russo. Non solo: secondo Marran, non c’è alcuna garanzia che qualsiasi estone, recatosi in Russia anche per una breve escursione, non venga reclutato dai servizi russi; è dunque il caso di catalogare tali scapestrati turisti quali “simpatizzanti” del confinante stato aggressore.
In questo “carosello” contro la passata “occupazione sovietica”, anche la Lettonia fa la propria parte. Sull’esempio dell’Ucraina golpista, lo scorso novembre il Parlamento di Riga ha deciso il passaggio di tutte le scuole, per l’anno scolastico 2021-2022, alla “lingua nazionale”.
Una decisione definita “fondata” dall’ex primo ministro russo Mikhail Kasjanov – da tempo, i liberali oltranzisti russi hanno elevato i Paesi baltici a proprio “teatro del silenzio” – dal momento che, ha detto, la Lettonia è “un paese indipendente unitario”. Gli ha risposto l’eurodeputato lettone Miroslavs Mitrofanovs, tacciando Kasjanov di incompetenza, dato che il numero di lingue ufficiali non è correlato al sistema federale; nella federale Germania, ad esempio, c’è una sola lingua ufficiale, mentre nell’unitario Lussemburgo ce ne sono tre.
E’ il caso di ricordare come in Lettonia, su una popolazione di un paio di milioni di abitanti, circa il 40% siano di lingua russa, considerata però lingua straniera, o come il sindaco della capitale Riga, il russofono Nils Ušakov, sia stato ripetutamente multato per essersi rivolto in russo ai propri elettori di origine russa. E’ anche il caso di ricordare come alcune centinaia di migliaia di abitanti di origine russa siano considerati “non cittadini” ed esclusi dal voto e da una serie di diritti. Questo in un paese “europeista”, le cui massime autorità onorano ciclicamente della propria presenza la marcia annuale dei veterani delle Waffen SS: coloro cioè che, a differenza dei cittadini baltici inquadrati a forza nella Wehrmacht, andarono volontari nelle divisioni SS locali, utilizzati dai nazisti in qualità di Polizei e colpevoli di stragi di propri stessi concittadini, oltre che di russi, bielorussi, polacchi.
Allorché il parlamento lettone aveva approvato la legge sulla lingua, i rappresentanti lettoni dell’Unione dei compatrioti russi avevano rivolto un appello a Senato russo, Consiglio d’Europa, OSCE, Parlamento europeo e ONU, contro la chiusura delle scuole russe, che in pratica significherebbe l’eliminazione della comunità russa e l’educazione dei giovani, sull’esempio ucraino, alla russofobia.
Ma, si sa, le “vittime dell’occupazione sovietica”, ucraine o baltiche che siano, al pari del Tereo ovidiano, sono considerate buone e le colpe procurano loro elogi.
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