“Et qui lui tranche le cou au nome de la France
Ataï fu décapité, son peuple colonisé
Son crane fut exposé dans le musées,
comme un trophée.
Enfant du destin, enfant de la guerre”
“Enfant du destin – Ataï”, Médine
Il 4 novembre, gli elettori della Nuova Caledonia – Territorio d’Oltre Mare della Francia – sono stati chiamati ad esprimersi attraverso un referendum sul quesito seguente: “Volete che la Nuova Caledonia acceda alla piena sovranità e diventi indipendente?”.
Questa prima consultazione è il coronamento degli “Accordi di Mantignon” del 26 giugno 1988 – seguiti da quelli di Nuoméa del 5 maggio del 1998 – tra il dirigente del Rassemblement pour la Calédonie dans la République (RPCR), Jacques Lafleur, e la principale organizzazione della lotta indipendentista del popolo Kanak, il FLNKS, ovvero il Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista creato nel 1984 e diretto da Marie Tjibaou.
Il conflitto in Nuova Caledonia nella seconda metà degli anni Ottanta causò più di una ottantina di morti e culminò con il massacro di Ouvréa del 5 maggio 1988, dove nelle grotte di Gossanah, un assalto delle “troupes de choc” nei confronti di un gruppo di militanti indipendentisti – che tenevano in ostaggio dei gendarmi dopo avere cercato di occupare una gendarmeria, in cui morirono quattro gendarmes – in cui perirono 19 indipendentisti e due militari.
Ad un anno dagli accordi, nel corso della cerimonia in ricordo dei “19 di Gossanah”, Marie Tjibaou verrà ucciso, insieme al suo “braccio destro” Yewéné Yewéné, dall’indipendentista radicale Djubelly Wéa.
L’immagine più significativa e forse più conosciuta della lotta per l’indipendenza è quella che ritrae l’indipendentista Éloi Machoro quando a Canala nel 1984 rompe a colpi di ascia un’urna per le consultazioni che dovevano concedere alla Nuova Caledonia un nuovo statuto, in una “elezione farsa”, nel mentre lo stato francese progettava una massiccia immigrazione dalla Francia metropolitana o da altri Territori d’Oltre-Mare per stabilire una superiorità demografica.
Questo lungo processo di pace, avrebbe dovuto “riequilibrare” la situazione politica e sociale nell’Arcipelago, sanando le contraddizioni ereditate dai circa 150 di dominio coloniale su queste isole Polinesiane e dando la possibilità agli abitanti di esprimersi sulla piena sovranità.
Dall’inizio della dominazione francese nel 1853 fino agli anni ’20 del secolo scorso la popolazione autoctona kanak è stata dimezzata – un esempio di genocidio mancato -, è stata espropriata delle proprie terre, costretta ai lavori forzati, privata di tutti i diritti civili fino al 1953, hanno in cui ha acquisito il diritto di voto.
Ogni tentativo di rivolta da parte dei kanak è stato ferocemente represso nel sangue, come durante l’insurrezione del 1878, guidata da Ataï, che provocò un migliaio di morti, o quella del 1917 che costò la vita a due-trecento persone, ma certo non è stata usata dalla Francia la “mano leggera” nemmeno nella seconda metà degli Anni Ottanta.
Dopo lunghe trattative tra i vari rappresentanti delle varie comunità dell’arcipelago, si è arrivati alla firma dell’accordo – il 2 novembre del 2017 – per la compilazione delle liste elettorali speciali, che comprendevano 174.154 elettori (sui circa 210.000 iscritti), escludendo circa 35.000 persone che non soddisfacevano i criteri di durata della permanenza sul territorio dell’arcipelago. Con 80.120 elettori, cioè il 46% degli iscritti, la popolazione kanak risultava minoritaria rispetto al corpo elettorale referendario.
La vittoria del “no” è risultata abbondantemente inferiore a ciò che prevedevano i sondaggi, e questa opzione è risultata vincitrice con uno stretto margine avendo totalizzato il 56,7%, a differenza dei sì che hanno ottenuto il 43,3%.
Un primo dato è stata la massiccia partecipazione, che si è attestata al 80,62%, considerando che la consultazione sugli accordi di Nouméa del 1998 era stata pari al 74,2%.
Il voto, che ha visto una massiccia partecipazione giovanile tra le file dei kanak, è stato estremamente polarizzato tra la comunità autoctona, favorevole all’indipendenza, e le altre comunità, contrarie, con i “no” che hanno “stravinto” nelle zone più benestanti, come nelle parti centrali della capitale, e i “sì” in quelle dove vivono i kanak, che sono le parti più povere dell’Arcipelago, tra cui la periferia di Nouméa.
Solo una parte del movimento indipendentista – le Partie Travailliste e l’USKE, il sindacato indipendentista – ha chiamato al boicottaggio delle urne, mentre il FLNKS ha fatto attivamente campagna per il sì, convinti che solo una indipendenza vera e propria possa creare le condizioni per una ripartizione equilibrata dei poteri, dei diritti e delle ricchezze, mentre una riconfigurazione all’interno dell’attuale assetto costituzionale riprodurrebbe l’attuale status quo.
La campagna elettorale si è caratterizzata per una relativa tranquillità, e i commenti della parte indipendentista sono di sostanziale soddisfazione, rivelando come questo referendum sia stato solo una tappa di un percorso più lungo, mentre tra le file dei “lealisti” l’insoddisfazione è palpabile e ha dato ambito a polemiche tra la parte più intransigente e quella più moderata dello schieramento per il “No”.
Come riporta l’inviato speciale di “Le Monde”, Patrick Roger, in un articolo del 2 novembre: “Pertanto, se la risposta alla questione posta al referendum è negativa, questo non significherà per questo la fine del processo. Prima di tutto perché, quale che sia il risultato, la popolazione kanak conserva, a riguardo delle regole internazionali, il suo diritto all’autodeterminazione. Poi perché l’accordo di Nouméa prevede, in caso di voto negativo, un terzo dei membri del Congresso della Nuova Caledonia – che conta 54 eletti, di cui 25 indipendentisti, prima delle prossime elezioni provinciali del maggio 2019 – possa domandare l’organizzazione di una nuova consultazione che avrà luogo in due anni. E se la risposta questa seconda consultazione fosse sempre negativa, una terza potrà essere organizzata nell’arco dei due anni successivi”.
Questo processo di “decolonizzazione”, nonostante alcune acquisizioni – come la restituzione dei terreni espropriati alla popolazione autoctona secondo un regime proprietario che fa della terra un “bene comune” che va al di là del mero possesso, e il riconoscimento delle forme di organizzazione derivanti dalla tradizione di questo popolo – ha avuto più ombre che luci per le contraddizioni sociali che permangono e l’alienazione delle principali risorse di cui dispone l’arcipelago.
Due sono le questioni principali.
Primo, il posizionamento geo-politico di uno stato realmente dipendente potrebbe farlo rientrare nell’orbita cinese, che sta estendendo la sua influenza sia politica che economica nel Pacifico, e che comunque anche in caso di un forte partenariato con la Francia – come auspicato dagli indipendentisti stessi – farebbe acquisire maggiori margini di autonomia, e potrebbe non coincidere con la traiettoria politica che vorrebbe dargli l’Esagono in un momento in cui si stanno velocemente riconfigurando gli assetti geopolitici.
Il controllo della più fruttuosa risorsa presente nel sottosuolo dell’isola, nonché principale datore di lavoro privato: il Nickel.
La Nuova Caledonia detiene un quarto delle riserve mondiali di questo minerale e circa la metà dei minerali a più ricco contenuto di Nickel.
Oltre alla storica società di sfruttamento minerario SLN, si sono affiancati due nuovi attori: la Koniambo Nickel e Vale Nouvelle-Calédonie. Il settore, compreso l’indotto, dà lavoro a circa 9.000 persone.
Il processo di estrazione è particolarmente impattante per il territorio, e la possibilità di aprire altri centri d’estrazione da parte della SLN è stata al centro di una importante battaglia che questa estate ha visto i più giovani contrapporsi alla compagnia mineraria.
“Se la SLN apre i tre nuovi siti d’estrazione come ha intenzione, i nostri fiumi automaticamente seccheranno. L’inquinamento del Nickel nei nuovi siti, molto vicini alle nostre tribù e alle nostre abitazioni, sarà terribile. Sarà paragonabile a ciò che è successo qui a Méa, e noi non lo vogliamo!”, ha dichiarato al giornalista di “Mediapart”, Nimoou Amori, un ventenne leader della protesta che con un blocco ha chiuso il sito in questione
I siti si trovano su dei terreni sacri per i kanak, che ospitano tra l’altro differenti specie animali e vegetali in estinzione, e le promesse di “ri-equilibrio” ecologico sui siti minerari non sono visibili nelle montagne “mangiate” dalle cave di estrazione e i cumuli di detriti che hanno reso sterili le parti orientali dell’isola.
L’azienda ha messo in atto “la serrata”, mettendo a rischio circa quattrocento posti di lavoro, e premendo sulla contraddizione tra difesa del territorio e occupazione, oltre ad alimentare il conflitto tra la parte più anziana della popolazione – che ha concesso la possibilità di estrazione – e i più giovani, maggiormente sensibili all’impatto irreversibile che avrebbe la moltiplicazione dei siti estrattivi.
Come ha dichiarato una fonte anonima dell’azienda al giornalista Julien Sartre, autore del sopracitato reportage: “i giovani regolino i loro problemi con i più vecchi, perché l’obbiettivo dell’azienda non è fare dell’antropologia o occuparsi dei costumi giuridici tradizionali. L’obbiettivo è di fare dell’economia, che si taglino degli alberi o che si riprenda il business as usual”.
E proprio i giovani Kanak sono parte che più risente del mancato equilibrio del processo di de-colonizzazione.
Come testimonia Samuel Gorohouma, economista e insegnante all’Università della Nuova Caledonia, intervistato per un reportage di “Libération”: “dal 1989 al 2014, si è passati dall’1% dei kanak diplomati al 5%. È un progresso solo in apparenza, ma allo stesso tempo, i non-kanak sono passati al 20%. Ci sono voluti trent’anni per raggiungere i livelli dei non-kanak di trent’anni fa”.
Le giovani generazioni della costa orientale sono colpite dall’impatto devastante dell’estrazione mineraria, senza goderne di alcun beneficio collaterale, abbandonano precocemente gli studi, mentre i villaggi in cui vivono sono soggetti all’esodo rurale ed ad alti tassi di suicidio.
I media locali riempiono le cronache con una rappresentazione che li criminalizza, fornendone uno stereotipo che ricalca l’antropologia coloniale che considerava i kanak una delle popolazioni “meno evolute”, più violente e enfatizzava il suo passato di cannibalismo.
Questi giovani sono pieni di un orgoglio che affonda le sue radici nella storia di un popolo guerriero mai piegato dalla dominazione francese, consci della propria situazione, che non sembra avere alcuna via d’uscita se non con l’acquisizione di una vera indipendenza che non dimentichi il portato storico della lotta kanak e le sofferenze subite.
Come si esprime un giovane artista kanak, Warren Naxue, in “un grido di guerra per la pace”, portando alla luce l’insofferenza anche per “l’istituzionalizzazione” della vecchia leva indipendentista: “Voglio la verità anche se ferisce. La preferisco alle menzogne perché se la verità ferisce, la menzogna uccide”.
La menzogna è quella di un processo che finora sembra non aver portato benefici ad una importante parte della popolazione, che – se non avvengono reali avanzamenti – le condizioni materiali d’esistenza, la memoria ancora viva di eventi piuttosto recenti e una storia di resistenza plurisecolare possono radicalizzare, riproducendo un senso di alienazione dal gioco politico: “dal colonizzatore che detta la sua legge”, per citare Naxue.
Lo spettro di Ataï potrebbe ancora aggirarsi tra i giovani kanak…
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