Nel dicembre del 1990, il Field manual del Dipartimento dell’esercito degli Stati uniti, definiva le operazioni militari in un conflitto di bassa intensità come «una combinazione di mezzi, [che] adopera strumenti politici, economici, informativi e militari». Ma quando questi mezzi non risultano efficaci al raggiungimento di un obiettivo militare (e dunque, politico-economico), il passo successivo è quello della “guerra guerreggiata”.
È questo il messaggio “scappato” dalla cartellina del Consigliere per la sicurezza nazionale statunitense John Bolton: in Venezuela siamo pronti all’escalation militare, che non è altro che la traduzione nostrana del «all options are on table» rilasciato dalla Casa bianca a seguito della “svista” del Consigliere. E non a caso, il già ridenominato “Piano Bolton” viene annunciato durante la conferenza stampa in cui si pubblicizzavano le sanzioni economiche alla Pdvsa, compagnia petrolifera venezuelana nazionalizzata da Chávez, i cui ricavi sono la fonte delle numerose misiones con cui il governo di Caracas finanzia lo “stato sociale”.
Contestualmente, il presidente Trump ha iniziato il 2019 all’insegna della ridefinizione della politica estera statunitense, non senza creare scompensi all’interno della squadra di governo. L’intenzione di ritirare la metà delle truppe dall’Afganistan (da 14 a 7 mila) non trova i favori dei capi della National intelligence nordamericana che, con le parole del direttore Daniel Coats, avvertono il presidente del rischio di un Iraq 2.0 in caso di ritirata da Kabul in assenza di un governo capace di mantenere la stabilità nel paese, e dunque di giustificare ex post il quasi ventennale l’intervento a guida stelle e strisce.
Nell’appunto di Bolton, quelle sarebbero le truppe incaricate (almeno nel numero) di “aprire” il fronte venezuelano tramite lo storico alleato colombiano, i cui confini col Venezuela sono terreno privilegiato per ogni operazioni di disturbo alla democrazia dei vino tintos.
A una “democrazia” che promette guerra, una “dittatura” risponde col dialogo. L’appena rieletto presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha annunciato all’agenzia russa Ria Novosti di essere disposto ad aprire all’opposizione politica, anche con la mediazione di paesi terzi. Come dire, non proprio l’atteggiamento di chi ha qualcosa da nascondere nell’armadio di casa propria.
Picche, invece, sull’ultimatum lanciato dell’Unione europea circa la necessità di indire nuove “libere elezioni presidenziali” entro otto giorni, minacciando il «non riconoscimento della leadership del paese». A livello internazionale, la spaccatura è totale, come sancito dal voto Onu (17 a 16), in cui è stato decisivo il Messico guidato dal nuovo presidente Lopez Obrador, stavolta non allineato ai voleri di Washington. Le elezioni, al massimo, possono essere quelle dell’Assemblea nazionale, di cui l’autoproclamatosi “presidente del Paese” Guaidò è il, questo sì, presidente.
Come già scritto in queste pagine, sul sostegno al Venezuela ci si divide, perché nel qui e ora poca importano le contraddizioni presenti nel processo bolivariano che, in quanto processo e realtà che cammina, non può essere esente da errori. È la natura della sperimentazione, peraltro portata avanti dovendo contemporaneamente affrontare la sfida di chi continua a considerarla come “il giardino di casa”, e dei suoi fedeli seguaci.
Insomma, è la natura del momento storico che impone lo schieramento senza esitazioni dalla parte del popolo venezuelano, a cui solo la continuazione del processo chavista può, se non garantire, quantomeno tenere aperto l’orizzonte di un futuro fatto di giustizia sociale e riduzione delle diseguaglianze. Di contro, l’imperialismo targato Donald Trump torna a tuonare sui confini dei Caraibi, incalzato da quell’«America first» che passa, dopo i continui fallimenti in Medio oriente e dal sopravanzare della Cina, dal controllo dell’altra parte dell’America, quella Latina e rebelde.
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