Per il terzo venerdì consecutivo dal 22 febbraio l’Algeria si riverserà oggi nelle strade.
Algeri – dove le mobilitazioni sono formalmente vietate dal 2001 – Orano, Costantine, la Kabylia, come le piccole località e le campagne sono state teatro delle mobilitazioni.
Un movimento inedito dalla fine della Lotta di Liberazione Nazionale, dall’inizio degli Anni Sessanta, ha fatto irruzione a qualche mese dalle elezioni presidenziali del 18 aprile contro la possibilità che il suo attuale presidente ottuagenario – da tempo in precarie condizioni di salute – si candidi per il suo quinto mandato, come annunciato proprio il 22 febbraio stesso.
La diaspora algerina vive soprattutto in Francia, in Belgio in Canada.
In Francia ci sono tra le 2,5 e 4 milioni di persone di nazionalità, o di origine algerina, che vivono a Parigi, Marsiglia, Tolosa, ecc. e che hanno dato vita già a numerosi mobilitazioni di sostegno al movimento in Algeria.
Questo è un aspetto molto importante, perché l’attività degli immigrati algerini in Francia fu determinante per la vittoria della lotta di liberazione algerina.
Non potrebbe esserci immagine più stridente tra quest’uomo politico che ha governato il Paese dal ’99 – dopo un decennio sanguinoso di guerra civile costata circa 200.000 vittime – dando seguito al legittimo desiderio di “stabilità” di una larga parte della popolazione ed un relativo benessere dovuto alla redistribuzione dei proventi petroliferi e degli idrocarburi (continuando comunque misure tese alla privatizzazione dell’economia) – e i suoi concittadini, di cui più della metà sotto i trent’anni di età.
Come ha detto in un intervista a “France Culture” Akram Belkaïd, giornalista e saggista che collabora con “Le Monde Diplomatique”:
“se Bouteflika si ripresenta, è perché il suo clan, quelli che lo circondano, non sono riusciti a trovargli un sostituto. Non riescono a mettersi d’accordo, non per una questione ideologica ma per una questione materiale di ripartizione della rendita. Alcun sostituto possibile si è rivelato sufficientemente convincente per rassicurare i clans che sono nella “stanza dei bottoni”.
La punta di lancia di questo movimento sono proprio i giovani, in particolare gli studenti, che le condizioni di accesso all’istruzione rendono una porzione del tutto rilevante della società: più di un milione e settecentomila, la cui componente femminile è di circa un milione.
Questa porzione di società, che vede frustrate le proprie aspirazioni ad un futuro dignitoso in patria e sempre più aleatorie le possibilità di recarsi altrove, anche questa settimana ha invaso le strade ridefinendo lo spazio pubblico come mai fino ad ora.
Una mobilitazione che ha superato gli angusti ambiti dell’opposizione della “società civile” e ha coinvolto differenti categorie sociali, dai giornalisti agli avvocati, passando per i medici, e agli operatori dell’informazione che in alcuni casi si sono rifiutati di allinearsi alla censura dei media delle mobilitazioni.
La dirigenza del sindacato algerino – l’UGTA – alla testa del quale dal 1997 siede A. Sidi Saïd, è con il Presidente e favorevole al suo quinto mandato, ma molte sezioni locali e sindacati di categoria hanno portato il proprio sostegno ai manifestanti. Numerosi sindacati “indipendenti” hanno raggiunto la protesta come nella scuola o nella sanità.
Il carattere spontaneo della protesta e il suo essere alieno dai tradizionali agenti politici sembra essere un dato abbastanza acquisito.
Reda Merida, per “Regards”, ha raccolto alcune delle voci di questi studenti in un reportage sulle mobilitazioni ad Algeri del 5 maggio.
Emerge un profondo senso “patriottico”, ancorato in una storia di strenua e vittoriosa resistenza alla dominazione coloniale francese, in cui i giovani in piazza si riconoscono e si percepiscono in completa continuità, oltre alla volontà di non dare vita ad una escalation violenta che rilegittimerebbe l’attuale assetto di potere politico come antidoto al caos – lo spettro di possibili infiltrazioni e di scenari “siriani” è ripetuto ad ogni piè sospinto dall’establishment – a conferma di ciò che altri attenti commentatori avevano riportato.
Nella capitale, come nei vari dipartimenti, nonostante il dispositivo di sicurezza, le mobilitazioni sono riuscite, con gli studenti universitari come motore di manifestazioni che hanno coinvolto anche l’istruzione secondaria.
Faïza, 24 anni dice: voglio solo non avere più voglia di lasciare il mio paese (…) l’Algeria ha bisogno di un cambiamento radicale, di una seconda indipendenza. Rimarcando la forte presenza femminile ai cortei, dice: è normale, siamo tutte nipoti di Djamila, riferendosi all’ottuagenaria eroina della Lotta di Liberazione Nazionale presente nelle manifestazioni di piazza.
Ghani, studente di biologia, dice che l’agitare lo spettro della guerra civile, efficace come spauracchio per le generazioni precedenti – come ha fatto l’establishment -, non attecchisce tra quelle più giovani, e ribadisce l’assoluta novità di ciò che sta vivendo: “non ho mai visto questo in 23 anni, anche i professori ci hanno raggiunto oggi”.
Anni di frustrazioni ed una “finestra sul mondo” data dalla comunicazione digitale hanno funzionato come propellente per questo movimento che ha sorpreso tanto il governo quanto l’opposizione, e che non ha nessuna organizzazione alle spalle a fare da vettore delle mobilitazioni.
Ghani dice apertamente: “tutti ne hanno abbastanza del sistema, non è una primavera araba, ma una rivoluzione popolare e spontanea”.
Lo scrittore venticinquenne Salah Badis, in una interessante intervista su L’Humanité, pubblicata il 6 marzo e realizzata da Rosa Moussaoui, dà uno interessante spaccato delle mobilitazioni.
Domenica notte, dopo l’annuncio ufficiale della ricandidatura di Bouteflika, “folle immense hanno invaso le strade, in tutto il paese. Tutti temevano delle violenze e delle distruzioni, ma no. Gli algerini proclamano sempre ‘Silmya’: perseverano, è molto bello, nella via pacifica”.
Per lo scrittore: “una coscienza sta sorgendo e si nutre di una speranza”.
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Oggi l’economia algerina, a parte il settore legato all’energia, è dominata dall’economia informale che occupa quattro milioni di persone, è a basso valore aggiunto e altamente dequalificata. Il tasso di disoccupazione è del 12%, ma raggiunge il 30% tra i giovani dai 16 ai 24 anni, con una disoccupazione intellettuale femminile più alta di quella maschile: il 17,6 dei diplomati sono senza occupazione, di cui l’8,1% tra gli uomini e il 22% tra le donne.
Si tratta per la stragrande maggioranza precari, senza alcuno sbocco, nonostante l’alto livello di istruzione della forza lavoro e la crescita della componente femminile istruita.
“Nel 2015, la parte della manodopera laureata era del 18% e quella con un livello di istruzione secondario il 18%. Per ciò che concerne la parte della manodopera di sesso femminile, è cresciuta del 46% tra il 1990 e il 2012“, riporta Abdelatif Rebath su El Watan, ripreso da “Invest’igation” in una lucidissima analisi che mette a nudo, tra l’altro, le debolezze economiche strutturali dovute al processo di “liberalizzazione” economica che ha aumentato la polarizzazione sociale.
L’autore denuncia il rischio che la mobilitazione possa avere come sbocco una democratizzazione di facciata: “una democrazia che si concilia con l’assenza di diritti economici e sociali come dello status di una economia dipendente, propria del capitalismo periferico subordinato”.
La sfida sta nell’appunto coniugare la democratizzazione formale del sistema di rappresentanza politico insieme alla democratizzazione sostanziale dei rapporti sociali, senza un “gattopardismo” che avvantaggi la parte delle classi dirigenti, avvantaggiatesi con riforme di mercato per potere proseguire in questa strada.
Nella candidatura di questo presidente gravemente malato, tanto da non apparire da lungo tempo in pubblico, le fasce più giovani della popolazione e le porzioni più attive della società vedono l’incapacità di un sistema di potere di gestire la consegna dalla classe dirigente attuale uscita dalla Lotta di Liberazione Nazionale – di cui l’esercito è il perno dell’assetto di potere e il garante ultimo della stabilità istituzionale – ad una fase successiva, come più volte annunciato gli scorsi anni.
Questa impasse evidente può dare vita a vari scenari nel breve periodo.
Citiamo Rachida El Azzouzi, giornalista di “Mediapart” che risponde alle domande che gli vengono poste dai lettori del giornale indipendente on-line e che tratteggia due ipotesi probabili:
“Bouteflika rientra da Ginevra, fa campagna elettorale invisibile senza discorsi, è eletto e mette in esecuzione (o piuttosto il suo entourage) la promessa fatta domenica scorsa di lasciare il potere prima della fine del quinto mandato al termine di un grande dibattito nazionale che avvia l’organizzazione di nuove elezioni anticipate. Questo lascia tempo ai circoli di potere per assicurare la permanenza del regime. Secondo scenario: la cerchia presidenziale rinuncia alla candidatura del presidente “impossibilitato” per la malattia e l’età e sotto la pressione delle mobilitazioni di piazza. Il secondo: un decesso del presidente algerino sempre in cura a Ginevra e descritto come “sotto minaccia vitale permanente”. In questo caso, la Costituzione prevede che il capo del Senato, l’ottuagenario Abdelkader Bensalah, assuma la carica di capo di stato ad interim per 90 giorni al massimo nel corso dei quali delle elezioni sono organizzate.”
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Questo venerdì e nei giorni seguenti la posta in gioco è altissima per un popolo che ha scritto con il sangue dei suoi martiri la propria libertà, che come ci ricorda Angela Davis: is a constant struggle!
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