Nel tardo pomeriggio di lunedì 11 marzo Abdelaziz Bouteflika in un messaggio alla nazione pubblicato dall’agenzia ufficiale APS ha dichiarato:
“Non ci sarà un quinto mandato e la questione non si è mai posta per me, il mio stato di salute e la mia età non possono che assegnarmi, come ultimo dovere verso il popolo algerino, che il contributo alla posa delle fondamenta di una nuova repubblica”
Questa nuova repubblica sarà “nelle mani delle nuove generazioni di algerini e di algerine.”
Le elezioni presidenziali si terranno all’interno del prolungamento della conferenza nazionale inclusiva ed indipendente che Bouteflika aveva già annunciato la scorsa settimana, prima della terzo venerdì consecutivo di mobilitazione, e verrà formato un nuovo governo.
Il nuovo primo ministro del governo sarà Noureddine Bodoui, mentre il vice-ministro sarà Ramtane Lamamra.
Nel suo discorso – trascritto integralmente in francese dal canale informativo online TSA – il presidente dice di volere rimanere in carica fino all’elezione del suo successore (e quindi prolungando il suo mandato oltre ciò che prevede la costituzione, tranne in caso di guerra) e afferma di avere seguito con attenzione le manifestazioni di cui comprende le ragioni ed elogia il carattere pacifico.
“Non ci saranno elezioni presidenziali il 18 aprile prossimo. Si tratta di soddisfare una domanda pressante che voi, in gran numero, mi avete posto, nella vostra preoccupazione di liberare il campo da tutti i malintesi riguardo all’opportunità e all’irreversibilità della trasmissione generazionale nella quale mi sono impegnato”
La Conferenza Nazionale sarà presieduta da una “personalità nazionale indipendente, consensuale e di esperienza” e dovrà “sforzarsi di completare il suo mandato prima della fine del 2019.”
“Il progetto di costituzione che verrà emanato dalla Conferenza sarà sottoposto ad un referendum popolare. La Conferenza nazionale indipendente fisserà in maniera autonoma l’elezione presidenziale nella quale non sarò in alcun caso candidato”
Verrà creata per via legislativa “una Commissione elettorale nazionale che si ispirerà alle esperienze e alle pratiche tra quelle migliori stabilite su scala internazionale.”
Il Presidente si impegna ad essere garante del processo che ha annunciato affinché si sviluppi al meglio a tutti i livelli.
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Questo sembra essere l’output politico da parte dell’attuale classe dirigente per gestire un periodo di transizione con il fine di far rientrare le mobilitazioni, che non sono scemate dopo le manifestazioni oceaniche di venerdì scorso, con l’inizio dello “sciopero generale” di questa domenica in diverse città ed in diversi settori, oltre al prolungamento delle mobilitazioni universitarie nonostante il goffo tentativo di anticipare le vacanze scolastiche – chiudendo tutti i servizi (a cominciare dagli alloggi) che permettono ai numerosissimi studenti fuori sede presenti ad Algeri di conseguire i propri studi nella capitale – al fine di depotenziare la protesta.
Questa exit strategy consiste in un gestione dell’attuale crisi politica tutta interna all’attuale assetto di potere, senza intaccare le profonde motivazioni della perdurante crisi di regime; una strategia d’uscita praticabile per la mancanza di una opzione politica “altra”, anche a causa della torsione autoritaria dello Stato tesa a impedire la formazione di una alternativa politica in questi anni e a rendere marginale e inconsistente l’opposizione reale.
È chiaro comunque che il “patto sociale” che ha governato l’Algeria per gli ultimi venti anni si è rotto, che il blocco sociale dominate è delegittimato e che i suoi attori politici hanno perso la loro egemonia, ma non totalmente l’efficacia delle reti clientelari di cui dispongono.
L’esercito, che ha sempre svolto il ruolo di garante nei momenti più difficili, e i servizi di sicurezza sembrano essere gli apparati meno “compromessi” a livello popolare, anche per la loro origine, in continuità con la Lotta di Liberazione dal colonialismo francese e la funzione svolta nella lotta contro la parte più sanguinaria dei combattenti islamici – la Gia – durante gli Anni Novanta.
Questa crisi poggia su una polarizzazione sociale montante e la formazione di una composita élite sociale legata strettamente al potere politico (in piena lotta intestina per affermare i propri interessi specifici e la propria egemonia a scapito delle porzioni concorrenti), nella conseguente impasse negli ultimi anni nel trovare un’alternativa all’ottuagenario presidente gravemente malato; una figura insomma in grado di bilanciare i vari interessi ponendosi come punto di mediazione.
Secondo un’inchiesta condotta nel 2005 dalla Lega Algerina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo (LADDH), 14 milioni di algerini – su poco più di 40 milioni – vivono sotto la soglia di povertà, mentre il 10% detiene il 40% delle risorse del Paese; ma le statistiche ufficiali tendono a “mitigare questo dato”, senza però negarlo.
La popolazione non aveva trovato nell’opposizione un’offerta politica adeguata, ripiegando nell’astensionismo massiccio nel corso dell’ultima elezione; mentre la “variante” islamica si è sempre più integrata nella trama di poteri, perdendo così attrattiva come alternativa all’ordine delle cose (come invece era stato prima del “decennio nero” degli anni Novanta).
Una popolazione sempre più giovane, istruita ed urbanizzata, cresciuta dopo la fine delle tragiche vicende della guerra civile, ha visto nel sistema di potere di Bouteflika – in carica dal 1999 – l’unico orizzonte politico in cui ha vissuto, dovendo far fronte ad un azzeramento delle possibilità di costruire un futuro in patria. L’emigrazione clandestina via mare – l’harraga – è stata considerata l’unica vera alternativa per le fasce più povere, mentre lo studio all’estero l’unica seria possibilità (comunque sempre più aleatoria) per migliorare la propria condizione.
Secondo un eccellente inchiesta pubblicata da Fatma Oussedik il 7 marzo su El Watan, il 70% della popolazione algerina vive in città, con un tasso di crescita che si attesta attorno al 3% all’anno; circa un terzo della popolazione ha meno di 15 anni, mentre il 54% ha meno di trent’anni.
Come abbiamo più volte riportato, gli studenti sono un milione e settecentomila, e sono stati la punta di lancia delle mobilitazioni – nonostante le manifestazioni abbiano avuto carattere fortemente intergenerazionale.
Se è vero che la richiesta di rinuncia al quinto mandato era stata l’istanza contingente e transitoria del movimento di protesta, le parole d’ordine delle manifestazioni avevano preso ben presto un carattere di critica più generale, chiedendo la fine del “sistema”.
Dentro il magma sociale in ebollizione, naturalmente, anche la porzione ultra-liberista della borghesia sta cercando di portare avanti i suoi interessi, promuovendo un salto di qualità nelle “riforme economiche”.
La trama di poteri in Algeria ha avvantaggiato – a causa delle scelte di politica economica – le porzioni di una borghesia “della rendita”, cresciuta con le misure di liberalizzazione economica all’ombra della gestione statale; come altrove, questa frazione ha goduto della svendita degli immobili statali a prezzi fino a dieci volte inferiori al loro valore di mercato, accaparrandosi inoltre le aziende privatizzate dallo Stato – 1.200 fino al 2003! – avvantaggiandosi con l’import-export dopo la fine del monopolio statale sul commercio estero.
Si tratta di una classe di “avvoltoi” – come è stata definita dai suoi critici – strutturalmente dediti alla corruzione come unico mezzo per accaparrarsi la ricchezza, piegando la macchina statale ai propri fini e svuotandola di quelle prerogative di pianificazione economica, gestione delle risorse e di garanzie dei diritti sociali: un possibile “cavallo di troia” per una maggiore penetrazione degli interessi liberistici e imperialistici dentro l’Algeria, viste tra l’altro le difficoltà economiche create dall’abbassamento del prezzo del petrolio e degli idrocarburi, risorsa fondamentale del paese che contribuisce a permettere una politica di spesa statale.
L’analisi puntuale di questo processo è stata svolta da alcuni importanti studiosi come Abdellatif Rebah in Le dévelopement national contrarié e nel meno recente lavoro di Rachid Tlemçani, in Etat, Bazar et globalisation. L’aventure de l’Infitah en Algérie, entrambe citati e utilizzati in un interessantissima analisi di Said Bouamama pubblicata su “Investig’ation”, che indaga le cause sistemiche della mobilitazione e mette in luce i pericoli e le opportunità di questa rivolta.
È chiaro che il dotarsi di strumenti organizzativi specifici e il respingere la seduzione di quella parte della trama di poteri che cerca di capitalizzare politicamente la protesta, è ciò che auspica quello che potremmo definire – con una certa approssimazione – “la sinistra di classe”, anche in una logica di accumulo delle forze che anni di apatia e di perdita del senso dell’azione collettiva (oltre che di repressione statale tout court) non avevano permesso.
Un interessante contributo proviene dal mondo sindacale; l’unione locale dell’UGTA, dell’importante zona industriale di Rouiba/Reghain, dà la cifra dei pericoli e delle prospettive della fase attuale nel suo comunicato.
“Non potendo restare al margine delle aspirazioni popolari che si esprimono, noi uniamo le nostre voci per dire sì al cambiamento del sistema. Un sistema che preservi la proprietà inalienabile del popolo sulle ricchezze naturali della nazione, ristabilisca il ruolo dello Stato nello sviluppo economico e sociale e la lotta contro la povertà e le ineguaglianze. Un sistema che si smarchi dalle oligarchie e rivalorizzi il valore del lavoro e che ponga l’uomo al centro del suo sviluppo. Un sistema che garantisca le libertà individuali, collettive e il libero esercizio dei diritti sindacali”.
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I giorni seguenti ci diranno, con il prosieguo delle mobilitazioni o meno, e sulla direzione generale che prenderanno, se la soluzione prospettata dal presidente e dal suo entourage ricalcano sostanzialmente o meno le ragioni della rivolta; o se queste vogliono perseguire un cambiamento più radicale con modalità più democratiche di quelle concesse dalle attuali relazioni di potere.
L’Algeria è una specie di enigma difficilmente definibile, anche agli occhi dei suoi profondi conoscitori.
Citiamo l’intervento Algérie: d’une crise de régime à un crise politique, di Hocine Belalloufi; giornalista, ex-collaboratore de l’Alger republicaine e militante del Partito Socialista dei Lavoratori (PST), pubblicato l’8 marzo su Réflexions et échanges insoumises.
“Possiamo concludere che il regime algerino non è né una monarchia, né veramente repubblicano. Non è una dittatura, né una democrazia. Non è una teocrazia, né un regime laico. Non è proto-imperialista, ma non è più anti-imperialista. Non è ultra-liberale, ma non è anti-liberale. La sua incapacità di risolvere le contraddizioni della società algerina come quelle che l’attraversano portano permanentemente ad una situazione di crisi. Questo immobilismo è rivelatore della sua incapacità a riformarsi. Noi siamo per questo condannati a rivivere delle crisi politiche più o meno violente che rischiano di trasformarsi in crisi dello stato propizie alle rivoluzioni, ma anche alle imprese dell’imperialismo”.
Il popolo pensiamo che, come sempre, abbia l’ultima voce in capitolo…
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