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La terza fase della Rivoluzione Sudanese

La rivoluzione sudanese sta conoscendo la sua “terza fase”, dopo il movimento d’opposizione iniziato a dicembre che ha portato al defenestramento dell’ex presidente Omar Al-Bashir, l’11 aprile di quest’anno, e la fase interlocutoria tra l’autorità militare transitoria (TMC) che di fatto governa il paese e la coalizione delle forze dell’opposizione: la Dichiarazione per la Libertà e l’Indipendenza (DFC) interrotta bruscamente dalla feroce repressione del 3 giugno del sit-in di fronte al quartiere generale dell’esercito a Khartoum iniziato e mai interrotto – nonostante le numerose aggressioni e provocazioni – il 6 aprile.

La risposta al massacro – più di 100 morti – e allo stato d’assedio di fatto della milizia che fa capo al “numero 2” della giunta militare (le RSF, ex janjaweed) è stata in un primo momento lo sciopero e le azioni di “disobbedienza civile totale”, nel fine settimana successivo allo sgombero, che hanno di fatto paralizzato il paese e rese deserte le strade, pattugliate dagli ex “diavoli a cavallo” responsabili delle atrocità nella guerra del Darfur, poi divenuti elemento essenziale nella strategia della UE di gestione dei flussi migratori (con il cosiddetto “Processo di Khartoum”) e del contingente schierato sul campo in Yemen della coalizione a guida saudita.

Per il 30 giugno è stata lanciata la “Million-strong march”, dopo che la giunta militare ha rifiutato la proposta scaturita dalla mediazione etiope, che articolava l’anello mancante dell’architettura della transizione su cui si era raggiunto un accordo tra la TMC e la DFC. Questo prima del viaggio dei militari in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto e del riuscito sciopero di due giorni precedente al massacro.

Le strade sudanesi sono tornate da giorni ad essere il teatro d’azione di questo popolo indomito, in particolare della sua componente giovanile. Come è avvenuto il 27 giugno ad Arbaji, nello stato di Jezira, dove gli studenti delle “primary school” hanno manifestato, anche in ricordo di Osman Gasm Elseed (di cui è la città natale), uno dei martiri del massacro del 3 giugno. E a Jabra, un quartiere della capitale, oppure a Omdurman il 25 giugno, oppure a Wad Madany – capitale dello stato di Madany, sempre il 25, dove a scendere in piazza sono stati gli studenti delle medie superiori, chiedendo di posticipare l’apertura della scuola al grido di “nessuna educazione, in una situazione di malessere”.

Il 29 e il 30 giugno, la diaspora sudanese manifesterà in tutto il mondo in sostegno della protesta nel loro paese natale, come ha fatto durante tutti questi mesi, pressoché ignorata dai media ufficiali.

Bisogna ricordare che il blackout informatico imposto dal 3 giugno dalla giunta, e che in vario modo il popolo sudanese sta cercando di aggirare, rende difficile la diffusione di ciò che avviene nel paese e ha ridato centralità ai “comitati di quartiere”, che erano stati i propulsori della rivoluzione dal dicembre in poi, fondamentali per una prima risposta dopo il massacro del 3 giugno; dopo il quale la giunta ha dichiarato “cessati” i colloqui e indicato la strada di elezioni presidenziali entro 9 mesi, con un interregno di gestione militare.

Il rifiuto della proposta etiope da parte della giunta, attraverso il suo portavoce, il Generale Shams al-Din Kabbashi, è stato denunciato dall’opposizione come il classico escamotage tattico per “prendere tempo” e cercare di contrapporre l’Unione Africana – altro soggetto mediatore nel conflitto – e l’Etiopia: “domandiamo ai mediatori di unire i loro sforzi e sottoporci una proposta comune il più presto possibile per il ritorno delle parti ad una negoziazione”.

È chiaro che l’isolamento internazionale di cui soffre la giunta – a parte il suo sostegno da parte dell’“asse del male” (Usa, Israele, Arabia Saudita) – e il nuovo protagonismo statunitense teso a determinare direttamente (non attraverso i suoi alleati) un processo politico in una area strategica per i suoi interessi (ha minacciato sanzioni contro i membri della giunta), mette in difficoltà la TMC che non ha visto esaurirsi la propulsione della risposta popolare.

La Sudan Professionals Association – punta di lancia della protesta che raggruppa tutti i settori sociali dell’opposizione e che è organica alla DFC – sta tuttora “dettando” l’agenda delle mobilitazioni con un programma dettagliato delle proteste che, dopo lo sciopero generale e la disobbedienza civile totale dei giorni successivi al massacro, si è concretizzata in azioni quotidiane dal 17 giugno fino ad oggi; insistendo sul ruolo dei “comitati di quartiere” nel promuovere il dibattito e con le mobilitazioni serali che avevano caratterizzato la protesta anche durante l’opposizione a Bashir, riappropriandosi dello “spazio pubblico” che le milizie della giunta vorrebbero azzerare.

Intanto il 26 giugno A. El Burhan, capo della TMC, si è incontrato con la “Troika” (USA, UK e Norvegia) nel palazzo presidenziale della capitale; presente anche “Hemeti”, il numero due della giunta militare, dopo che l’inviato speciale degli USA Donald Booth si è espresso per un trasferimento dei poteri ad una autorità civile  e ha detto di sostenere la protesta, mentre il rappresentante norvegese ha supportato lo sforzo di mediazione congiunto dell’Unione Africana e dell’Etiopia.

Come abbiamo più volte sottolineato, il Sudan ed il suo popolo si trovano al centro di un complesso scontro e “ricompattamento” tra diversi attori regionali, mentre il processo rivoluzionario è seguito con grande attenzione – e preoccupazione – in tutto il continente africano.

Il 30 giugno è una data storica per il Paese, perché è il giorno in cui nel 1989 Bashir prese il potere con un colpo di stato appoggiato dalla parte più retriva dell’islam politico, che è stato poi l’architrave ideologico del regime nel corso degli anni successivi.

La rivoluzione sudanese è entrata nella sua “terza fase”, e si alimenta della sua storia indomita che le ha fatto conquistare l’indipendenza, annullare due colpi di stato ed ora le può far regolare definitivamente i conti con il “vecchio regime”. riuscendo in ciò che non è riuscita a fare proprio a fine anni ’80, trenta anni dopo.

La storia, si sa, procede per “salti di qualità” e “rotture” e sconfigge innanzitutto i fantasmi delle sconfitte del passato…

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