Le Universiadi 2019 hanno portato a Napoli due giovani atleti palestinesi, anche se, non si sa se per volere degli “amici” o dei “nemici” o per sola disattenzione o incapacità mediatica, la loro presenza è stata irrintracciabile sui siti sportivi e su quello delle stesse Universiadi, che occulta le nazionalità partecipanti ai diversi appuntamenti agonistici, tranne che quelle delle squadre.
Pare che lo stesso Jbril Rajoub, a capo dello sport palestinese e considerato possibile successore di Abu Mazen al vertice dell’AP abbia accompagnato la piccolissima rappresentanza di atleti universitari. Secondo quanto riportato da rarissimi cenni di giornali che, in apertura dell’evento, hanno voluto metterne in luce la consunta retorica di uno sport foriero di pace, anzi già concreta esistenza di pace.
La stessa a cui persino Gianni Infantino si è connesso, con notevoli doti contorsionistiche, nella Conferenza “per la pace” Peace to Prosperity voluta con piglio da imperatore da Donald Trump in Bahrain gli scorsi 25 e 26 giugno.
Il “moralizzatore” Presidente della FIFA, infatti, vi era stato invitato con il precipuo compito di fornire un supporto all’operazione del secolo: imporre ai Palestinesi di abbandonare ogni rivendicazione e coscienza di autodeterminazione come popolo, per un pugno di dollari. Benché i Palestinesi tutti l’abbiano disertata e condannata, Infantino era lì a dare il suo solido contributo alla “pace”. Come in altre occasioni, non ha tenuto in alcun conto la richiesta, questa volta supplice di Jibril Rajoub, di non presentarsi, in nome di un minimo di coerenza con l’asserita “imparzialità” dello sport e la sua “neutralità” rispetto alla politica: come poteva partecipare a un’iniziativa squisitamente politica che pretendeva di decidere il destino di un popolo che vi sarebbe stato assente?
La linea seguita dal Presidente della FIFA verso le richieste palestinesi è stata in continuità con quella seguita nel 2017: lo scioglimento da parte della Commissione FIFA del gruppo (istituito da Blatter) sulla problematica della negazione di libera circolazione di sportivi e attrezzature che ostacola gravemente il calcio palestinese e, nel Congresso del giorno dopo, il togliere la parola al rappresentante palestinese.
In Bahrain Infantino ha mostrato di ritenere che l’esistenza di meno di 25 stadi in Cisgiordania non avesse nessi con la politica, ma fosse una carenza di carattere esclusivamente economico e superabile con elargizioni “benefiche” a cui i Palestinesi non avrebbero potuto rinunciare. “Facciamo qualcosa di tangibile e concreto che la popolazione possa vedere, e quando i ragazzi giocano a calcio, primo sorridono e, secondo, non fanno altre cose”
Il “moralizzatore” presidente Infantino, prendendo parte alla Conferenza del secolo per la Palestina, disertata e condannata da tutte le rappresentanze palestinesi, ha confermato l’atteggiamento di disprezzo nei confronti di questo popolo e della sua Federazione calcistica.
Mentre la piccolissima delegazione sportiva palestinese stava per arrivare a Napoli per le Universiadi, e qualche giorno dopo il seminario di Manama, ancora una volta gli ostacoli frapposti dalle autorità israeliane alla libertà di movimento degli sportivi palestinesi e la politica d’isolamento delle istituzioni culturali palestinesi culturali palestinesi da esse perseguita hanno imposto un’improvvisa sospensione del calendario del campionato nazionale palestinese di calcio, obbligando a rinviare a data da definirsi la partita conclusiva della Coppa che si sarebbe dovuta giocare il 2 del mese allo stadio di Nablus.
Si sarebbero dovute confrontare le due squadre vincitrici della prima parte del campionato: quella dello Youth Center di Balata, vincitrice della sezione cisgiordana del campionato, e la Khadamat di Rafah , vincitrice della sezione gazawa. Ancora una volta, ai calciatori di Gaza non è stato consentito di raggiungere la Cisgiordania: dei 35 permessi richiesti, solo uno è stato concesso stato concesso.
Proprio il ripetersi frequente di simili impedimenti politici al regolare svolgimento delle attività sportive, anche di quelle di livello internazionale, aveva costituito dal 2014 materia di richiesta esplicita da parte della dirigenza palestinese alla FIFA perché intervenisse a garantire il calcio palestinese. L’organismo paritetico istituito dalla Presidenza Blatter come risposta non aveva ottenuto miglioramenti reali, ma è con la nuova Presidenza Infantino che la situazione del riconoscimento del diritto palestinese è precipitata.
L’individuazione di sei squadre di insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania (e quindi illegali per il diritto internazionale, come riconfermato alla richiesta rivolta all’ONU dalla FIFA come prima reazione di fronte alla sollecitazione d’intervento avanzata dalla PFA), ha rappresentato una nuova urgenza su cui sembrava più ovvia la possibilità d’intervento da parte della FIFA, anche per la somiglianza con un caso precedente, affrontato dallo stesso Infantino, al tempo alla direzione della UEFA, quando impose l’espulsione delle squadre della Crimea dal campionato russo, pena l’espulsione dello stesso dalla UEFA.
Ciò nonostante, si è ricordato come la FIFA nel 2017 abbia cancellato con un colpo di spugna ogni problema e relativa richiesta palestinese.
Non basta. Lo scorso anno, la provocatoria proclamazione della ministra israeliana dello sport dell’intenzione di spostare la probabile partita amichevole con l’Argentina in preparazione per i Mondiali di Russia da Haifa a Gerusalemme (che Israele aveva incominciato a pretendere di annettere integralmente, suscitando preoccupazioni e mobilitazione nel mondo palestinese ed arabo e non solo), provocò manifestazioni di contrarietà in un crescendo a cui si aggiunse l’intervento di Rajoub.
Anche lui si rivolse a Messi, pronosticandogli l’abbandono da parte dei tifosi palestinesi ed arabi se avesse metaforicamente macchiato la propria maglietta con il sangue palestinese partecipando all’incontro dalle evidenti finalità politiche di annientamento del diritto palestinese all’autodeterminazione. Le proteste altisonanti israeliane ed opportuna interpretazione del messaggio del Presidente della Federazione Palestinese, ottennero che la FIFA lo sospendesse per un anno.
Ma questa tempesta che pesa sullo sport palestinese e non solo su di esso, non traspare dai volti sereni dei due giovani giunti per competere nelle Universiadi. Come se fosse nel loro DNA la nuova idea di “eroe” illustrata da Layan: chi riesce a vivere al meglio possibile la propria vita e con impegno, è questa capacità vitale ben diversa dall’eroismo espresso dal “dare la vita” perdendola per una causa.
Nelle loro storie l’assurdo sembra assorbito in una sorta di preventivo calcolo che permetta di ridurne gli effetti devastanti. Sì, parlando, può capitare di ricordare che qualche incomprensibile impedimento di un permesso non giunto è risultato strano, ma non tanto da soffermarcisi troppo.
Anas Altamari è di Betlemme ed ogni mattina si reca in automobile alla propria università, Al Quds a Gerusalemme, una trentina di minuti di percorso. Layan Jaber è una studentessa di Nablus e studia all’Università An-Najah. Entrambi hanno ventidue anni ed hanno gareggiato nelle Universiadi 2019 martedì 9 luglio di prima mattina.
Anas è nuotatore, primo nel campionato di nuoto palestinese del 2017, ad agosto 2018 ha partecipato per i 50mt farfalla agli Asian Games (dal 1990 la Palestina vi partecipa regolarmente) a Jakarta e nel dicembre dello stesso anno ai Campionato Mondiali di Nuoto in vasca corta ad Hangzhou in Cina, gareggiando per i 50 mt stile libero. Alla piscina Scandone di Napoli si è confrontato sui 50mt stile libero, ma i due secondi in più rispetto ai primi due della sua batteria ne hanno determinata l’eliminazione.
Layan Jaber, della Palestinian Taekwondo Federation, al Palazzetto dello sport di Casoria ha affrontato in combattimento l’avversaria cinese di Taipei, Chen Yu-Chang che ha poi ottenuto l’argento. Pure Layan ha partecipato a numerose competizioni internazionali, anche all’estero sin da giovanissima. A sette anni aveva intrapreso questo indirizzo sportivo, seguendovi i due fratelli maggiori, e già a dieci anni nel 2008 il padre l’accompagnò in Giordania perché potesse parteciparvi ad una competizione, nel 2013 la Federazione Palestinese le chiese di rappresentarla a Bangkok, dove si qualificò ai campionati asiatici.
Spesso è l’unica donna del gruppo sportivo, da sola si recò nel 2014 a competere negli Emirati Arabi. Ha partecipato al Campionato d’Asia l’anno scorso in Vietnam, ad Ho Chi Minh City ed a Jakarta agli Asian Games, ad aprile di quest’anno alla Presidents Cup Africa in Marocco. Ha collezionato un oro e quattro bronzi.
Sembra smentire tutti gli stereotipi appioppati alle ragazze palestinesi, a un’impertinente domanda sui suoi fluenti e lunghi capelli neri, senza scomporsi risponde che condivide l’idea del padre, toccandosi con l’indice la fronte: lo hijab è una purezza intima e riguarda il modo di vedere e comportarsi, non un capo di abbigliamento.
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