Si approssima l’80° anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale, “conclusa vittoriosamente dagli Stati Uniti, che sconfissero il nazismo nel 1945, nonostante il perfido patto con cui, cinque anni prima, l’Unione Sovietica aveva dato via libera a Hitler per attaccare l’indifesa e innocente Polonia…”
Le premesse ci sono tutte, e altre sono in elaborazione, perché l’interpretazione mediatica della storia si sviluppi proprio così. Nulla di nuovo; da anni va in questo modo; ma i contorni si fanno sempre più definiti, via via che passa il tempo.
Il dato categorico di partenza è che “la democrazia ha sconfitto i totalitarismi, neri o rossi che fossero”; tutto il resto viene a cascata. Sulla scia degli yankee, che attribuiscono importanza “decisiva”, se non esclusiva, a ogni loro scontro o scaramuccia con qualche reparto hitleriano e, di quando in quando, si appropriano addirittura delle imprese dei propri alleati occidentali (ricordate il film USA “U-571”, che suscitò addirittura le proteste di Tony Blair?), anche gli sconfitti assoluti cominciano a dire che no, questa o quella vittoria sovietica fu, in realtà, una disfatta sul campo.
Da un paio di giorni i media russi prendono posizione contro l’uscita di Sven Felix Kellerhoff, capo-redattore della sezione storica del tedesco Die Welt, il quale, descrivendo il più grande scontro di mezzi corazzati della guerra, il 12 luglio 1943 a Prokhorovka come un involontario attacco-kamikaze (“unfreiwilligen Kamikaze-Angriff”) e in pratica una disfatta dell’Armata Rossa, chiede l’immediata demolizione del monumento (“müsste dieses Denkmal sofort abgerissen werden”) la cappella eretta nel 1995 nella piana teatro dello scontro, in memoria dei soldati sovietici lì caduti.
L’urto di carri armati a Prokhorovka, una sessantina di km a nord di Belgorod, avvenne durante la fase terminale della battaglia di Kursk, l’operazione con cui l’Armata Rossa respinse la programmata offensiva nazista “Zitadelle” contro il saliente sovietico. Più ancora di Stalingrado, secondo il parere concorde di tutti gli storici, Kursk, durata complessivamente dal 5 luglio al 23 agosto, decise le sorti della guerra, obbligò gli alleati ad affrettare lo sbarco in Sicilia e pose fine a ogni piano d’attacco tedesco.
Dopo Kursk, strategicamente, i tedeschi, salvo qualche isolato tentativo nel 1945, non riuscirono più a prendere l’offensiva e fermarono la ritirata solo a Berlino. Al saliente di Kursk furono impegnati, da entrambe le parti, oltre 4 milioni di uomini, 12mila aerei, quasi 70mila bocche da fuoco, più di 13mila tra carri armati e artiglieria semovente.
Sulla scorta, principalmente, delle affermazioni dello storico Karl-Heinz Frieser, Kellerhoff mette in dubbio il numero di carri che effettivamente avrebbero preso parte allo scontro – non circa 800 per parte, ma solo un paio di centinaia in tutto – e dà come risultato una completa disfatta dei corazzati sovietici, con appena qualche “Tigre” danneggiato.
Cose non nuove. Ma, quello che davvero ha fatto andare in bestia i commentatori russi è che l’articolo, “in puro tedesco, contenga una frase che in Russia è difficile non leggere come una sfacciata arroganza o un insulto intenzionale”: la sollecitazione a rimuovere il monumento. “Questo lo dice a noi un tedesco. In tal tono. A proposito di un monumento sulla nostra terra. Dedicato ai nostri caduti!”, si indigna lo storico Nikolaj Starikov, e osserva che Die Welt, come altri giornali, “non è stampa tedesca, ma in lingua tedesca; di fatto, portavoce non della Germania, ma degli USA”.
Le stesse immagini a corredo del testo, sono prese dall’Archivio di Stato College-Park, nel Maryland. Che a Prokhorovka, l’Armata Rossa abbia perso molti più carri dei tedeschi, è un fatto che gli storici sovietici hanno sempre ammesso, anche perché al largo impiego dei nuovi “Tigre”, “Pantera” e semoventi “Ferdinand”, i leggeri T-34 potevano opporre solo il numero, la maggior manovrabilità e il combattimento ravvicinato, quando non addirittura lo speronamento, che significava la fine del carro nemico, ma anche il quasi sicuro suicidio. Ma, dopo Prokhorovka l’iniziativa strategica passò definitivamente ai sovietici.
Quanto al monumento, il Ministro della cultura russo, Vladimir Medinskij ha commentato: “A suo tempo, l’Armata Rossa ha demolito Panzerwaffe e Wehrmacht, ha demolito l’intero Stato nazista; oggi noi non demoliremo proprio niente” e ha aggiunto che la parte sconfitta cerca sempre di vincere la guerra delle memorie, “fecero così i generali nazisti negli anni ’50 e ’60 e fanno così oggi i propagandisti politici in Occidente”.
Quell’Occidente, in cui “ci sono sempre più idioti, provocatori o storicamente ignoranti”: questo il commento dello storico Oleg Nazarov su Svobodnaja Pressa. Nel 1941 e ’42 l’iniziativa fu in mano ai tedeschi e loro alleati, continua Nazarov; poi venne la rotta di Stalingrado. Con “Zitadelle”, i tedeschi pianificavano di riprendersi la rivincita e l’iniziativa offensiva. Ma non ebbero né l’una né l’altra.
Secondo lo storico Mikhail Mjagkov, l’uscita di Kellerhoff rientra nella “guerra di informazione occidentale contro la Russia”. La figlia di un veterano di quella battaglia ha commentato per iarex.ru: “Quanti mascalzoni hanno messo in dubbio la vittoria a Kursk! E propongono addirittura di demolire i monumenti! I fascisti devono chiudere la bocca per sempre”.
Dmitrij Orlov su Facebook: “Il tritacarne di Prokhorovka: iniziativa strategica e teatro dell’assurdo”. La valutazione generale è che “né l’Armata Rossa, né la Wehrmacht abbiano vinto; ma è pure che l’offensiva ‘Zitadelle’ sia stata fermata proprio a Prokhorovka, mentre la controffensiva sovietica si sia trasformata in una iniziativa strategica (i ‘dieci assalti staliniani’) che non si arrestò fino alla fine della guerra”.
L’osservatore di iarex.ru, Mikhail Demurin: “Dove e come innalzare i monumenti ai vincitori, la Russia lo decide senza i consigli di chicchessia; agli autori di alcuni di questi strani consigli si può ricordare il noto appello a non svegliare il can che dorme”. Che il rapporto tra perdite sovietiche e tedesche a Prokhorovka, continua Demurin, “sia stato a favore degli hitleriani, è un fatto a tutti noto”.
Altrettanto noto che “il 5 agosto l’Armata Rossa liberasse Belgorod, che ancora il 12 luglio era molto dietro le linee tedesche”; e poi, che fine avevano fatto “le tre divisioni del 2° corpo carri SS impegnate a Prokhorovka: ‘Leibstandard Adolf Hitler’, ‘Das Reich’ e ‘Totenkopf‘? Si erano ritirate nelle posizioni preparate in precedenza?”
La conclusione è che “una lotta particolarmente accanita contro l’eredità della Grande Guerra Patriottica è condotta in paesi che, direttamente o indirettamente, sostengono le idee fasciste: primi fra tutti, Ucraina e Paesi baltici”. Paesi che, insieme alla Polonia, ne sanno qualcosa in fatto di demolizione di monumenti ai soldati sovietici e ai caduti antinazisti, dato che sono ormai fatti quotidiani; paesi in cui la glorificazione del nazismo è all’ordine del giorno, le parate storiche istituzionali a ricordo dei veterani delle divisioni SS baltiche e ucraine costituiscono ricorrenze ufficiali annuali.
Anche per questo, non può considerarsi casuale, o dettata solo dalla ricorrenza del 12 luglio, l’uscita di Sven Kellerhoff su Die Welt che, sotto la veste della “ricerca”, intenderebbe rimettere in discussione la storia della vittoria sul nazismo.
Guarda caso, proprio Paesi come Ucraina e Baltici, insieme alla Germania, saranno tra i principali invitati il 1 settembre a Varsavia alle celebrazioni per l’80° anniversario dell’inizio della guerra; mentre a tutt’oggi non si ha notizia di alcun invito alla Russia.
Il capo di gabinetto presidenziale, Krzysztof Szczerski, ha dichiarato che la Polonia celebrerà la data con i rappresentanti degli stati che collaborano con Varsavia a “garantire la pace sulla base del diritto internazionale, del rispetto della sovranità degli altri stati e della loro integrità territoriale“. Al contrario, la “violazione di queste regole fu un tratto distintivo degli aggressori del 1939 e rimane oggi la più grande minaccia per la pace“, ha detto Szczerski.
Saranno quindi invitati i Paesi NATO, UE e del Partenariato orientale: Armenia, Azerbajdžan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina, in predicato per il futuro ingresso nella NATO.
D’altronde, nella stessa Polonia – che fu tra le prime, nel gennaio 1934, a firmare un patto di non aggressione decennale con la Germania hitleriana – sono ufficiali l’antisovietismo, l’anticomunismo e, oggi, la russofobia, così dilaganti nei Paesi baltici e in Ucraina. Nient’altri che un polacco, il (ancora per poco) Presidente del Consiglio d’Europa, Donald Tusk, ha dichiarato, nel corso della visita a Batumi per il 10° anniversario del “Partenariato orientale” della UE, che la caduta dell’Unione Sovietica “non è stata la più grande catastrofe geopolitica del secolo”, ma, anzi, una “benedizione per georgiani, polacchi, ucraini e tutta l’Europa orientale e centrale. E anche per i russi”.
E’ forse per questo che, a scanso di improbabili resurrezioni sovietiche dalla Russia eltsiniana, la NATO sta allestendo una “testa offensiva d’assalto nelle vicinanze dei confini russi“; lo ha rivelato il Comandante della Direzione operativa dello Stato maggiore russo, generale Andrej Sterlin, che ha precisato come, allo scopo di “espandere le capacità di spostamento delle truppe”, per il 2020 la NATO metterà a punto “formazioni di rapida operatività, composte da 30 battaglioni meccanizzati, 30 squadroni aerei, 30 navi“.
La lezione di Kursk e Prokhorovka non ha insegnato nulla a ovest della Vistola.
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