Giovedì 8 agosto, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU ha pubblicato un rapporto speciale su “il cambiamento climatico, la desertificazione, il deterioramento del territorio, la gestione sostenibile del suolo, la sicurezza alimentare e i flussi di gas serra negli ecosistemi terrestri”. Non c’è dubbio che la sintesi per i responsabili politici, negoziata per una settimana a Ginevra, cancellerà alcuni dei termini più controversi. Tuttavia, alcuni dei 196 Stati membri dovrebbero logicamente uscire dalla sessione a testa bassa.
Questo rapporto, che segue quello dell’ottobre 2018, che avvertiva dell’immenso compito degli Stati di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C entro il 2050, viene pubblicato alla vigilia della Giornata internazionale delle popolazioni indigene. Aveva l’intento inoltre di ricordare il legame tra la crisi climatica e le popolazioni indigene: queste non solo sono direttamente interessate dal riscaldamento globale, ma possono anche servire come esempio da seguire e come modello nella lotta contro questo.
Le minacce che gravano su queste comunità sono due: in primo luogo, la crisi climatica stessa, che indebolisce i loro spazi di vita, ma anche le pressioni esercitate sulle loro terre dalle attività umane. Tuttavia, queste terre sono anche trappole per CO2 e serbatoi di biodiversità e contribuiscono a contenere l’aumento delle temperature globali.
Il caso della regione amazzonica illustra perfettamente questo doppio vincolo. Il 68% delle terre indigene e delle aree protette dei nove paesi della regione è attualmente minacciato da strade, miniere, dighe, pozzi, incendi boschivi e, naturalmente, dalla deforestazione.
Il caso del Brasile è stato particolarmente acuto dopo l’elezione del presidente di estrema destra Jair Bolsonaro il 28 ottobre 2018. In meno di un anno ha fatto della foresta amazzonica brasiliana il parco giochi per cercatori d’oro, accaparratori di terre e del business dell’agroalimentare in generale.
A luglio, l’assassinio di Emyra Waiãpa, accoltellato a morte da cercatori d’oro illegali, è stato seguito da un attacco in pieno regola al villaggio di Mariry da parte degli stessi cercatori d’oro. Si sono levate voci che denunciano il ruolo del presidente brasiliano in questa violenza. Sin dalla sua elezione, il governo ha costantemente dichiarato che intende porre fine alle aree protette indigene e renderle accessibili ai minori.
Lunedì 5 agosto, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha invitato le autorità brasiliane a indagare sull’omicidio. “La politica proposta dal governo brasiliano di aprire più aree dell’Amazzonia allo sfruttamento minerario potrebbe portare a episodi di violenza, intimidazioni e uccisioni dello stesso tipo di quelli inflitti alla popolazione Waiãpi la scorsa settimana”, ha scritto Michelle Bachelet in un comunicato.
E ha aggiunto: “Invito il governo brasiliano a riconsiderare la sua politica nei confronti delle popolazioni indigene e delle loro terre, affinché l’assassinio di Emrya Waiãpi non segnali una nuova ondata di violenza volta a spaventare le persone al punto di cacciarle dalle loro terre natie e permettere la distruzione delle foreste tropicali, con tutte le conseguenze scientifiche consolidate che hanno esacerbato il cambiamento climatico”.
Bolsonaro probabilmente non è stato impressionato da questo comunicato, poiché ritiene che le popolazioni indigene vivano come “uomini preistorici” verso i quali sarebbe responsabile di portare la civiltà.
Appena entrato in carica, Bolsonaro ha deciso di privare la Fundação Nacional do Índio (Funai) della sua responsabilità di delimitare i territori indigeni, trasferendola al Ministero dell’Agricoltura. L’apertura di grandi aree indigene a cercatori d’oro, agricoltori e operatori del legno non è l’unica prodezza del presidente brasiliano da quando è entrato in carica il 1° gennaio.
Anche se non ha formalmente abolito il Ministero dell’Ambiente, come aveva promesso, di fatto lo ha fortemente indebolito. Ricardo Salles, che ne ha assunto la direzione, è sotto inchiesta per aver modificato il piano di gestione di un’area protetta sul fiume Tietê con “una chiara intenzione di favorire i settori economici”, secondo la Procura della Repubblica di San Paolo.
Il nuovo governo brasiliano ha inoltre autorizzato l’uso di 121 nuovi pesticidi, il 41% dei quali sono classificati come molto tossici o estremamente tossici. La maggior parte di queste sostanze sono utilizzate per la coltivazione del mais o della soia, che vengono poi utilizzate per l’alimentazione del bestiame. Non solo per il bestiame brasiliano: il 37% della soia importata nell’UE proviene dal Brasile.
Questa politica ha ovviamente l’effetto immediato di accelerare la deforestazione del Brasile. L’Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais (INPE) ha recentemente fornito le sue ultime cifre e non sono buone. Secondo questo organo ufficiale, che pubblica i suoi dati dalla metà degli anni ‘70, solo nel mese di luglio sono stati disboscate 2.255 chilometri quadrati di foresta. Si tratta di tre volte di più rispetto allo stesso mese del 2018. Da gennaio la deforestazione è aumentata del 67%.
Cosa dice a riguardo il capo di stato? Bolsonaro grida a cifre false, ritiene che l’agenzia sia nelle mani delle ONG. “Se sommiamo la deforestazione annunciata negli ultimi dieci anni, l’Amazzonia sarebbe già scomparsa. Capisco la necessità di preservarla, ma la psicosi ambientale non esisterà più con me”, ha detto il presidente brasiliano, intervistato da Le Monde. Il direttore dell’INPE è stato licenziato, sostituito lunedì da un colonnello in pensione, Darcton Policarpo Damiao…
Ai giornalisti stranieri, ricevuti alla fine di luglio, Bolsonaro ha detto: “L’Amazzonia appartiene al Brasile, non a voi”. É un’illustrazione perfetta dei legami tra l’estrema destra e il negazionismo climatico – anche se il presidente filippino Rodrigo Duterte non fa eccezione, con il suo paese che detiene il triste primato per il numero di attivisti del clima uccisi dalla sua elezione.
Può l’Unione Europea fidarsi del Presidente brasiliano e continuare a negoziare un accordo di libero scambio con il Brasile (accordo UE-Mercosur, che comprende Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay)? Questo è quello che pensa Emmanuel Macron, convinto che questo sia l’unico modo per fare pressione su Bolsonaro. Questo è anche quello che ha scritto l’editoriale del The Guardian lo scorso 28 luglio.
Secondo il quotidiano britannico, che è in prima linea nelle questioni ecologiche, l’accordo UE-Mercosur “rafforza l’influenza europea con i suoi partner commerciali sudamericani”. Il The Guardian ritiene che l’accesso ai mercati dell’UE abbia “convinto il Brasile a non seguire l’esempio di Donald Trump ritirandosi dall’accordo di Parigi sul clima”.
Ma si può dubitare del risultato finale quando è noto che il Ministro dell’Ambiente Ricardo Salles ha fatto campagna contro il ritiro dell’accordo di Parigi, dichiarando che il Brasile “deve poter mantenere la sua autonomia nel processo decisionale in materia ambientale”. Questa affermazione non sorprende, visto che tutti gli accordi di libero scambio antepongono l’economia all’ambiente.
Inoltre, la credibilità della Francia per esercitare pressioni sul Brasile deve ancora essere dimostrata. Mentre il progetto Montagne d’Or, questa vasta miniera d’oro nel cuore della foresta amazzonica della Guyana francese, sembra essere in cattive condizioni, altri permessi di ricerca mineraria sono stati recentemente concessi dall’amministrazione francese. L’ultimo, il 3 agosto: la società Sands Resources ha ottenuto un permesso per 5.000 ettari di foresta. Secondo il collettivo Or de question, questo progetto fa parte dei quasi 360.000 ettari (3.600 chilometri quadrati) di foresta trasferiti alle società minerarie.
Alla riunione del G20 di Osaka a fine giugno, Macron e Bolsonaro si sono incontrati per la prima volta. In questa occasione, il Presidente brasiliano ha invitato il suo omologo francese a “visitare il Brasile, e in particolare la regione amazzonica”, secondo un portavoce della presidenza brasiliana. Una visita che servirebbe a dimostrare “gli sforzi del Presidente Bolsonaro, insieme al governo, per preservare l’ambiente”.
* Traduzione a cura di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo) dell’articolo pubblicato su Mediapart.
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Gianni Sartori
ALTRI SCALPI PER BOLSONARO…
(Gianni Sartori)
Per quanto è stato possibile finora ricostruire un gruppo di poliziotti armati di tutto punto, a bordo di veicoli e di elicotteri, avrebbe assalito una comunità indigena nel centro-ovest del Brasile. Terrorizzando, picchiando e ferendo diverse persone appartenenti agli autoctoni Kinikinawa. L’aggressione è stata in parte, solo inizialmente, ripresa in un video. Altre immagini riprese successivamente mostrano volti feriti e sanguinanti.
Di cosa sarebbero accusati i Kinikinawa? Semplicemente di aver rioccupato, il 1 agosto, una piccola parte dei loro territori ancestrali, terre che erano state letteralmente rubate dagli allevatori. L’operazione di legittimo ritorno da parte degli indigeni si stava appunto concludendo quando è arrivato l’attacco delle forze dell’ordine.
A quanto sembra non c’è stata un’ordinanza ufficiale, emessa da un giudice, per espellere i Kinikinawa. Presumibilmente la polizia ha agito su richiesta di un sindaco o direttamente degli allevatori. Da gennaio, con l’arrivo al potere di Bolsonaro, le aggressioni e le invasioni di territori abitati dalle popolazioni autoctone si sono moltiplicate.
Gianni Sartori